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domenica 15 dicembre 2013

Unplugged in Cobain

Kurt Cobain durante la performance Unplugged in New York
Vent'anni fa i Nirvana registrarono il concerto MTV Unplugged in New York. Kurt Cobain (1967-1994) si congeda con la poesia della sua tormentata anima musicale.

di Luca Ferrari

Vent’anni sono tanti da ricordare. Quelle musiche. Quel concerto. Quella fine. Tutto questo non è mai stato dimenticato. I Nirvana di Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl suonano un delicato concerto acustico. Insieme a loro cìè anche la seconda chitarra dell'ex-Germs, Pat Smear.

...Durante svariate notti pensavo che anche certe ore non avessero bisogno di nessuno/… una sola intenzione provvedeva alla sponda alquanto simile… la strada era pronta per bruciare tutte le fotografie d’ogni armeria...

14 le tracks dell’MTV Unplugged in New York dei Nirvana. Canzoni da tutti gli album della rock band: About a Girl (Bleach,1989). Come as You Are, Polly, On a Plain e Something in the Way (Nevermind, 1991). Pennyroyal Tea, Dumb e All Apologies (In Utero, 1993). Insieme a loro alcune cover: Jesus Don't Want Me for a Sunbeam (The Vasolines), The Man Who Sold the World (David Bowie), tre cover dei punk Meat Puppets (Plateau, Oh Me, Lake of Fire) e infine Where Did You Sleep Last Night? del bluesman Leadbelly.

“Se tutto è così insignificante e programmato, allora l’onda della follia meriterebbe più rispetto/...  Perché è così facile voler bene a qualcuno?... a volte credo d’aver capito, a volte mi sento solo il sopravvissuto di un’era che deve ancora arrivare” gennaio/febbraio1995

Fin dalla prima trasmissione, fece molto scalpore vedere come una band rock molto legata alle distorsioni dei newyorkesi Sonic Youth e con una forte carica rabbiosa nella voce del cantante, avesse trovato una delicata dimensione acustica di elevatissima qualità.

Kurt Cobain è lì. Rilassato. O forse rassegnato. Appena pochi mesi dopo si sarebbe suicidato nella sua casa poco fuori Seattle.

“non voglio guardare dove sono arrivato
perché le bruciature delle mie dita
sono ancora troppo importanti

non sono ancora certo
della forma delle stelle
e questo è tutto… hai voglia di comunicarmi
qualcosa che non so?
Avresti voglia di attualizzare
la mia ignara lista di desideri?

le tante parole scritte sulle strade non hanno mai avuto una fine

potrei indossare un copricapo
oppure ricominciare
senza di me… oppure ingigantire chissà quale immagine
contraffatta … i rastrelli
sulla sabbia non dovrebbero
essere costantemente rivolti
verso il mare, e questo
nessuno ce lo ha mai voluto dire

sono abbastanza certo
di sapere cosa ho voluto, ma non è mai stato
abbastanza

e anche se continuerò a sentirmi indifeso
e poco idoneo a capire come mi comporterò
non potrei mai vendere la prossima frase,
                                                               (15 dicembre 2013)                

Oh Me (1993, Unplugged in New York) - Nirvana feat. Meat Puppets

i Nirvana live in New York unplugged

giovedì 28 novembre 2013

Audioslave, i fuochi di Cochise

Audioslave, il video di Cochise - Tim Commerford
Poderosa e tonante. Cochise, primo singolo degli Audioslave. Ascoltarla sotto i fuochi d’artificio del Redentore a Venezia è tutta un’altra storia.

di Luca Ferrari

“Ormai non posso più semplicemente associare questa canzone degli Audioslave al video o alla mera faccia di Chris (Cornell, ndr) quando esplode nell'urlo prima del ritornello finale” racconta la milanese Desirée, “Cochise è una tovaglia bianca per terra. Qualche birra. La gente che rincontrerai. Cochise sono due amici che hanno appena avuto la stessa idea”.

Dalle ceneri di due delle più significative band degli ultimi trent’anni, Soundgarden e Rage Against the Machine, a inizio Terzo Millennio nacquero gli Audioslave. Il nuovo gruppo era formato dagli ex-RATM Tom Morello (chitarra), Tim Commerford (basso) e Brad Wilk (batteria), con l’aggiunta del cantante made in Seattle, Chris Cornell.

Un’unione impensabile per certi versi (stile). Rap-rock politico da una parte. Rock distorto-melodico dall'altra. E i commenti infatti erano unanimi: “Qualunque cosa faranno o sarà un flop o un capolavoro”. L’attesa per conoscere il valore di questo atipico sodalizio artistico finì il 14 ottobre 2002 quando venne pubblicato Cochise, il primo singolo (con videoclip) del debut album Audioslave (Epic Records), prodotto da Rick Rubin. Il titolo della canzone si richiamava al celebre capo dei Chokonen, tribù di Apache Chiricahu, il valoroso guerriero Cochise.

Cochise è mettere le cuffie. Immaginare quel cazzutissimo video all’americana mentre partono le ultime scintille in cielo” settaccia Desirèe tra i suoi primi ricordi, “Fare headbagging mentre gli altri ti guardano strano perché non c’è musica da Wayne's World (1992) nell'aria”.

Le prime battute di Cochise sembrano introdurre alla perfezione l’inizio di una sfida, mentre tutto il proseguo potrebbe essere l’azione vera e propria tra attacchi, sangue, cadute e la vittoria finale. Confesso mi sorprende non sia mai stata utilizzata per colonne sonore per supereroi Marvel o le varie Katniss (Hunger Games).

Dopo un intro “controllato”, la musica esce dai blocchi bruciando in modo devastante. All’esplosiva chitarra si aggiungono le prime tracce di “badmotorfingeriana” memoria:  “Well I been watchin’/ While you been coughin/ I've been drinking life While you been nauseous/ And so I drink to health/ While you kill yourself/ And I got just one thing/ That I can offer”.

Trad. “…Bene, sono stato a guardare/ mentre tu hai tossito/ ho bevuto la vita/ mentre tu sei stato più furbo/ e così bevo alla salute mentre tu ti uccidi/ e ho giusto solo una cosa/ da offrire”. L’impossibile era diventato realtà. La sezione ritmica dei Rage Against the Machine e la voce melodico-rabbiosa di Chris Cornell insieme.

In un’epoca dove ormai la volgarità e l’omologazione avevano già sodomizzato a morte MTV, il video di Cochise insieme ai contemporanei I Am Mine (Pearl Jam) e You Know You’re Right (postumo dei Nirvana) furono un’impensabile e adrenalinica sorpresa. Una poderosa scossa di terremoto rock in un 2002 sempre più schiavo di scadenti video hip-pop e gangsta.

il livello sale, le cicatrici si contendono l’accesso al cielo/… la salvezza è una questione divina o un’azione da rivolgere a noi stessi?… Fingo di fare una domanda perché l’opinione degli altri non ha mai tenuto conto di dove eravamo prima che le ombre ci avessero apertamente sfidato

In perfetto stile Canzoni tra le righe, per la suddetta ragazza intervistata, Cochise nel tempo è passata da mera (grandiosa) canzone degli Audioslave a un preciso ricordo con uno scenario non così diverso da quello della spettacolare ambientazione del video musicale.

“Non posso più associare questa canzone semplicemente al video, quando Tom e gli altri entrano dentro l'ascensore e la scossa di assestamento del motore che parte per la salita segna l'inizio della canzone” dice Desiree.

E via con la seconda strofa. “Well I'm not a martyr/ I'm not a prophet/ And I won't preach to you/ But heres a caution/ You better understand/ That I won't hold your hand/ But if it helps you mend/ Then I won't stop it – Bene, non sono un martire/ non sono un profeta/ e non sarò io a farti la predica/ ma c'è una clausola/ capisci meglio/ che non vorrò fermarti la mano/ ma se chiederà aiuto, tu fallo/ poi non la vorrò fermare”

“Non posso più solo associare questa canzone alla faccia di Chris quando esplode con quell'urlo (che nel video dura molto di più che nel pezzo su cd, o almeno la mia versione dura pochissimo), con le vene che gli pulsano tra fronte e collo” continua Desirèe.

La terza strofa (di cui sopra Desy ne descrive la corrispondente scena nel videoclip) pare fatta per far rifiatare la band, ma è solo una mera illusione. “Drown if you want/ And I'll see you in the bottom / Where you crawl/ On my skin/ And put the blame on me/ So you don't feel a thing” – trad. “Vai se vuoi/ ed io ti guarderò fino in fondo/ dove striscerai/ sulla mia pelle/ e mi darai la colpa/ così tu non sentirai nulla”

“Poi un giorno Cochise non fu più solo il singolo di debutto degli Audioslave per noi orfani di RATM e Soundgarden (all’epoca). Non fu più solo l'abbraccio tra tutti i quattro componenti della band a fine canzone, che ora se ci penso, cazzo, sembra quasi la copertina di Ten (primo album dei Pearl Jam, ndr)” sottolinea Desirèe.

rock the Audioslave
Ma che cos’è allora Cochise per te, Desiree Sigurtà?

“Cochise è diventata una sera di luglio a Venezia. Alla festa del Redentore, davanti all'Arsenale. Dove quasi non si vedeva nulla tanto il bacino era intasato di barche, e un vaporetto ostruiva pure la visuale. Cochise è una tovaglia bianca per terra, qualche birra, la gente che sai un giorno rincontrerai”.

...forse ho meno sassi sotto le scarpe di quanto pensi, ma non c’è mano che non abbia patito la carenza d’innocenza/… i passi odierni che ci tengono a distanza oggi sono scivoli colorati che le stelle rappresentano nel loro sognare di essere donne e uomini…

“La canzone Cochise degli Audioslave sono due amici (di cui uno vestito con un’improbabile camicia-tovaglia) che si guardano negli occhi e hanno la stessa fottutissima idea” conclude Desiree, “quando partono gli ultimi fuochi d'artificio, parte anche Cochise”… Go on and save yourself, And take it out on me yea - Vai e salva te stesso tira fuori da me la volontà. 

Audioslave, il video di Cochise

Audioslave, il video di Cochise - Chris Cornell
Audioslave, il video di Cochise - Tom Morello
Venezia , si guardano i fuochi del Redentore ascoltando Cochise (Audioslave) © Luca Ferrari
Venezia , si guardano i fuochi del Redentore ascoltando Cochise (Audioslave) © Luca Ferrari
Venezia , si guardano i fuochi del Redentore ascoltando Cochise (Audioslave) © Luca Ferrari

giovedì 7 novembre 2013

Pussy Riot, taci e Mosca

Nadezhda Tolokonnikova (Pussy Riot)
La Russia Putiniana tappa la bocca a Nadezhda Tolokonnikova (Pussy Riot). Nessuno sa dov’è stata trasferita. La protesta di Amnesty International.

di Luca Ferrari

Ma che fine hanno fatto i musicisti impegnati? È possibile che nessuno voglia sfidare lo zar Vladimir in difesa di tre ragazze punk? Cosa penserebbero di tutto ciò i vari Joe Strummer la leggendaria voce dei Clash, o un John Lennon dinnanzi a tutta questa indifferenza? Pussy Riot abbandonate da tutti, anche dal loro mondo. 

Il 22 ottobre scorso l'attivista russa, nonché membro del gruppo punk rock Pussy Riot, Nadezhda Tolokonnikova, è stata prelevata dalla colonia penale dove stava scontando una condanna a due anni di prigionia, con possibile (?) trasferimento verso un’analoga struttura in Siberia. Amnesty International ha dichiarato che il continuo rifiuto da parte del Governo di rendere noto dove si trovi la donna, è una prova fin troppo evidente dell’intento delle autorità russe di ridurla al silenzio.

“Nadezhda Tolokonnikova ha denunciato pubblicamente le minacce ricevute da funzionari delle carceri” ha dichiarato Denis Krivosheev, vicedirettore del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International, “Temiamo che la sua situazione attuale rappresenti la punizione per aver protestato contro le sue deplorevoli condizioni detentive. La giovane è una prigioniera di coscienza che non avrebbe mai dovuto essere arrestata”.

La Russia di Putin è una delle più grandi e potente dittature del mondo, ma per uno strano caso le sue riprovevoli azioni risultano sempre molto trascurate dal movimenti pacifisti e nonviolenti occidentali evidentemente troppo impegnati a scendere in piazza solo per più abbordabili nemici. Amnesty International è una piacevole anomalia e oggi torna ad alzare la voce contro Mosca chiedendo spiegazioni sul destino della musicista Nadezhda Tolokonnikova (Pussy Riot).

“Se fosse vero che Nadezhda è stata portata  una colonia penale distante migliaia di chilometri da Mosca, ciò renderebbe ai suoi avvocati e familiari quasi impossibile incontrarla, in violazione dei diritti umani della detenuta e della stessa legislazione russa” ha poi concluso Krivosheev.

Diritti umani in Russia? C’è chi ha provato a denunciarne la loro costante violazione. Era una piccola e coraggiosa donna di professione giornalista sempre in prima linea per il settimanale Novaja Gazeta. Il suo nome era Anna Politkovskaja. Come sia morta lo sappiamo tutti. Freddata sulla porta dell’ascensore di casa. Chi siano i mandanti, lo sappiamo tutti.

il gruppo punk-rock Pussy Riot

sabato 12 ottobre 2013

Pearl Jam, Let the Lightning Bolt Play

i Pearl Jam da Seattle





















Hanno ispirato vecchie e nuove generazioni. La rock band americana Pearl Jam ha realizzato il decimo album in studio: Lightning Bolt.

di Luca Ferrari

Da più di vent’anni accordano quel mondo che non ha mai voluto arrendersi. Lunedì 14 ottobre 2013 esce il disco Lightning Bolt (Monkeywrench Records/Republic Records), 10° album dei Pearl Jam. A parte il batterista Matt Cameron (in pianta stabile dal 1998) e il tastierista Kenneth Boom Gaspar con i PJ dal 2002, gli altri quattro membri della band sono gli stessi degli esordi: i due chitarristi Stone Gossard e Mike McCready, il bassiste Jeff Ament e il cantante Eddie Vedder.

"In questo nuovo lavoro è sempre più Eddie a fare la differenza, elevando buone canzoni a grandi canzoni (Sirens, Future Days, Getaway)" racconta in esclusiva per il magazine online Live on Two Hands l’esperto "pearljammer" trevigiano Omar Nizzetto, in prima fila lo scorso febbraio al live milanese dei Brad (il side project di Stone Gossard).

"Poi ci sono delle sorprese musicali in grado di, letteralmente, rapirti con un ritmo che non ti aspetteresti (Infallible, Pendulum e in parte anche Father’s Son e Let the records Play)" prosegue, "Per onestà intellettuale, resta un po’ di amaro in bocca pensando che magari avrebbero potuto osare di più su altri pezzi invece di giocare sul sicuro su buone ma convenzionali song (Lightining Bolt, Mind your Manners, Yellow Moon)”.

Una carriera ormai più che ventennale quella dei Pearl Jam. Canzoni che sanno sempre emozionare (anche il peggior disco dei Pearl Jam è un raggio di luce in questa ormai decennale grigia depressione musicale, sottolinea deciso Omar). Un sound e uno spessore impermeabili a qualsiasi moda o presunta tale. Una solidità umana e una coscienza sociale degna erede dei vari Bob Dylan, Patty Smith, Bruce Springsteen, etc.

Sotto la sapiente e veterana produzione dell’onnipresente Brendan O’Brien, la band, formatasi nella Seattle dei primi anni Novanta, con l'album Lightning Bolt ha raggiunto la doppia cifra in studio. "L’attesa per un imminente nuovo album dei Pearl Jam è simile solo a quella che da bambino provavi sapendo che il giorno dopo saresti salito nella tua giostra preferita al lunapark” sottolinea Omar, "È la sensazione del giorno prima della festa, che a volte si rivelava più carica d’emozione che la festa stessa.

Ascoltare le prime note di un loro nuovo disco è come quell’attimo in cui l’energia alimentava la giostra e l’adrenalina ti coglieva in pieno. Ascoltare il resto del disco è stato come proseguire lungo le rotaie della giostra. Tra salite e discese, giri della morte e attese prima di ricominciare tutto daccapo. Ascoltare Lightning Bolt per la prima volta è stato tutto questo. Nuovamente".

Dodici le canzoni del nuovo album dei Pearl Jam, Lightning Bolt (2013):

01 Gateaway (3:26) – Chiamatela deformazione professionale, ma prima ancora che partano le note dell’inizio di Lightning Bolt, il titolo della prima canzone mi rimanda a vent’anni esatti fa. Alle lyrics di Scentless Apprentice (In Utero 2003) dei Nirvana dove Kurt Cobain siglava il suo marchio di fabbrica con semplici giochi di parole: get away (va via), get a way (scegli una strada). Inizio l’ascolto. Il ritmo sa di festa tra amici. Il basso di Jeff Ament scorre pulito. La voce di Eddie si alterna tra corse moderate e andature più lente. Ma questa non è una materia per scattisti. È una maratona e siamo appena all’inizio. Un lungo percorso dove ho il mio modo di credere  (I’ve got my own way to believe). Una strada infinita dove talvolta bisogna mettere tutta la propria fede nella non fede (Sometimes you find yourself having to put all your faith in no faith).

02 Mind Your Manners (2:38) – Il primo singolo e dunque già conosciuto. Confesso che mi entusiasmò poco. Song standard con fin troppo facili reminiscenze alla Spin the Black Circle, canzone quest’ultima vincitrice di un Grammy Award nel 1996. Un testo che pare attingere ancora dall’interiorità più riottosa non solo di Eddie, ma dell’intera band. Finale che più rock non si potrebbe. E già s’immagina uno stage diving di tutto rispetto. "Non sarà più tempo per i capolavori" annuisce Omar Nizzetto, "ma da questi cinque ragazzi ci si potrà attendere sempre e comunque il meglio"

03 My Father’s Son (3:07) – Il figlio di mio padre. Devo ancora ascoltarla ma con un titolo così me la immagino alla Daughter. Sarà così? Non resta che scoprirlo… Previsione del tutto errara. Il ritmo è decisamente più veloce rispetto alla terza canzone di Vs (1993). Qualche reflusso alla MFC (Yield). Il testo è profondo. Segreti, rancori e sofferenze. “Cannot forget you’re hiding collected wounds left unhealed/, When every thought you’re thinking sinks you darker than the new moon sky,/ The faraway lights rising in the whites of your eyes… Non posso dimenticare che hai nascosto ferrite lasciate senza cura/ Quando ogni pensiero che avevi ti faceva affondare nell’oscurità più nera del cielo senza luna/ Le luci lontane si stanno risvegliando nel bianco dei tuoi occhi”. Un finale con la chitarra di Mike che da come l’impressione di aver ancora molta energia da condividere.

04 Sirens (5:41) – L’altra canzone già nota, ribattezzata la I am Mine di questa nuova decade e facilmente riconducibile a essa anche per la somiglianza del video (e della chioma del singer, più corta però all’epoca di Riot Act, 2002). La track più lunga dell’album. Prendano nota i rocker più romantici perché qui c’è una farse da trascrivere a penna su una lettera e consegnare alla propria amata: “For every choice, mistake I made, is not my plan/ To see you in the arms of another man/ And if you choose to stay, I’ll wait, I’ll understand – Per ogni scelta, errore che ho fatto, non era nei mie piani di vederti tra le braccia di un altro uomo/ E se decidi di restare, aspetterò. Capirò”. Non riesco a non pensare che tra le parole finali della prima strofa, “But all things change, let this remain – Ma tutto cambia, lascia che questo rimanga”, la dichiarazione d’amore non sia solo quella tra due persone, ma da una band a se stessa. Una dolce auto-dedica che in molti condivideranno.

Pearl Jam, il video di Sirens
• 05 Lightning Bolt (4:13) – Tocca alla canzone che da il nome all’album, dualismo questo di cui non sono un grande fan. Un coro di chitarre dove già vedo Stone e Mike andare su e giù per il palco strizzando l’occhio a Ron (Wood) e Keith (Richards), scambiandosi di posto. Una canzone da sentire e cantare live assolutamente. 
 
06 Infallible (5:22) – Inizio alla Tremor Christ (Vitalogy, 1994). Miscela sonora anomala per i Pearl Jam. Lascio la testa viaggiare. Abbandono il tappeto di parole su cui continuo a correre. Anche se sono solo a metà tragitto, non mi pare di aver mai iniziato ed essere ancora davanti a uno stereo con la cassetta che gira. Senza nemmeno mezzo pensiero sul tempo che passa. Con l’assolo quasi finale ho la certezza di un’ombra seduta vicino a me. Silenziosa e piangente di commozione.

07 Pendulum (3:44) –“We are here and then we go/ my shadow left me long ago – Siamo qui e poi ce ne andiamo/ La mia ombra mi ha abbandonato molto tempo fa”. Ritmo più lento. Oscuro. Un viaggio sonoro senza superflui caratteri alfabetici e dove, se mai esistesse ancora qualcosa che non è come sembra, adesso è arrivato il tempo di confrontarsi. “I'm in the fire but I'm still cold – sono il fuoco ma ho ancora freddo” sussurra ad alta voce Eddie Vedder. Poi il tambureggiare di Matt Cameron semplicemente dice basta, e tutti eseguono. In silenzio.  Ad anime (sicuramente) unite.

08 Swallowed Whole (3:51) – Echi REMiani in questa nuova canzone. Boulevard aperti dove le finestre si aprono per recitare una preghiera zen, buddista o per ricollegarsi a ciò che si diceva all’inizio, a ciò in cui si crede. “I could choose a path, I could choose the word/ I could be the sun, I could be the sound/– Potrei scegliere un sentiero, Potrei scecgliere una parola… Potrei essere il sole, Potrei essere il suono”. Consigliabile da ascoltare con le luci plumbee di un’alba invernale.

09 Let the Records Play (3:46) – Ritmo incalzante e altra song dalla decisa propensione live. Se i Pearl Jam volevano dirci qualcosa, quel “I’ve been off but but I'm on my feet, my feet again – Sono stato lontano ma sono di nuovo sui miei piedi” è quanto di più genuinamente combattivo possa ergersi dalla loro monumentale normalità. O normale saggezza, chiamatela come vi pare.

10 Sleeping By Myself (3:04) – Per onestà di cronaca, è la prima che rimetto ad ascoltare. C’è qualcosa di “alatamente” poetico che mi sfugge. Esplode il tema dell’incertezza. “Forever be sad and lonely/ Forever never be the same/ Oh I close my eyes and wait for a sign/ Am I just waiting in vain? – Per sempre  triste e solo/ Per sempre mai lo stesso/ Oh, chiudo gli occhi e aspetto un segnale/ Sto aspettando invano?”. Per quelli che di Generazione X non volevano più sentir parlare, adesso si devono confrontare ogni giorno con qualcosa di ancor peggiore. Senza filastrocche da canticchiare sulla spiaggia. Ma no, non può finire così. Una rock lullalby per credere che si possa fare ricominciando da sé. “I’m beginning to see/ What's left of me is gonna have to be free to survive – Sto cominciando a scoprire/ Ciò che è rimasto di me sarà libero di sopravvivere”. Forse oggi ci meritiamo qualcosa di più della sopravvivenza ma è innegabile che tutto possa (ri)cominciare lasciandoci andare a un sogno. Chiudendo gli occhi. 

11 Yellow Moon (3:52) – La sofferenza non fa parte solo dei nostri specchietti retrovisori. Eddie Vedder prende fiato e non ancora pago dell’ispirazione del film Into the Wild, ritorna con un inno naturalista dove è impossibile distinguere tra stelle cadenti e ricordi/accordi. C’è una battaglia interiore da cui non si scappa. Qui, sotto la Luna, l’eco non è solo una voce uguale alle nostre parole. Un consiglio alla band: quando la suonerete in concerto, invitate Neil Young sul palco a metterci del suo.

12 Future Days (4.22) – E siamo alla fine. Si comincia con le delicate note di un piano e anche in questo caso preparino i fazzoletti i più sensibili. “If I ever were to lose you/ I’d surely lose myself/ Everything I have dear/ I’ve not found by myself – Se dovessi perderti/ Perderei sicuramente anche me stesso/ Tutto ciò che ho di più caro/ Non l’ho trovato da me”. Una canzone perfetta per chiudere un concerto. E ricominciare. Con l’accendino alzato per illuminare l’oscurità e ripetere tutti insieme “I believe and I believe ‘cause I can see/ Our future days, days of you and me – Io credo, io credo perché posso vedere i nostri giorni futuri, i giorni di te/voi e me”.

i nostri giorni futuri, i giorni di te e me... 

Pearl Jam (da sx): Mike McCready, Boom Gaspard, Matt Cameron, Eddie Vedder,
Jeff Ament e Stone Gossard

lunedì 22 luglio 2013

Mark Lanegan, pura anima e sound

Duke Garwood (sx) e Mark Lanegan
Doppio live autunnale a Bologna e Mestre (Ve) per il songwriter Mark Lanegan, al suo primo sodalizio artistico con il poli-strumentista inglese Duke Garwood.


 Un musicista eclettico come ce ne sono ancora pochi in circolazione. Dal decennio (1986-96) come frontman degli Screaming Trees a una variegata carriera solista. Instancabile artista. Inventore di note e parole. Il suo nome è Mark Lanegan. Dopo tre album realizzati insieme alla cantante scozzese Isobel Campbell, il 2013 segna l’inizio di una nuova collaborazione, con il poli-strumentista londinese Duke Garwood.

Lo scorso maggio hanno realizzato l’album Black Pudding (2013, Heavenly Recordings). Mark e Duke suoneranno live lunedì 18 novembre al Teatro Duse di Bologna e l’indomani, martedì 19, al Teatro Corso di Mestre (Ve). Sebbene sia il primo lavoro realizzato dai due, non si può dire essere casuale il sodalizio artistico. Oltre ad aver aperto molti dei concerti del recente tour europeo di Lanegan, Garwood ha anche suonato in due brani di Blues Funeral (2012, il settimo album solista di Mark).

Folk. Blues minimale e ipnotico. Black Pudding mette in risalto lo spessore e il virtuosismo di Garwood alla chitarra nonché l'unicità della voce (baritonale) e delle liriche di Lanegan. "Duke Garwood è uno dei miei artisti preferiti di sempre" ha sottolineato Mark, "lavorare a questo disco con lui è stata una delle migliori esperienze della mia vita". Della stessa corrispettiva idea, il diretto interesso, “Penso che Mark sia come John Coltrane: pura anima e sound”.  

Quella con Duke Garwood è solo l'ultima di una serie di collaborazioni che hanno scandito la carriera del musicista originario di Ellensburg (Wa, USA). Da Greg Dulli ai Queens of the Stone Age, passando per Soulsavers, Moby e la cantautrice canadese Melissa Auf der Maur (ex-Hole e Smashing Pumpkins).
Mark Lanegan e Duke Garwood © Steve Gullick

lunedì 15 luglio 2013

Mind Your Pearl Jam

Pearl Jam, il singolo Mind your manners (Lightning Bolt)
Preceduto dal singolo Mind Your Manners, esce lunedì 14 ottobre Lightning Bolt, il decimo album della rock band americana, Pearl Jam.


Tornano i Pearl Jam con un nuovo album, Lightning Bolt (2013, Monkeywrench Records). In attesa che la band faccia conoscere il nuovo disco dal vivo anche nel vecchio continente, è già stato annunciato un tour nordamericano che partirà venerdì 11 ottobre a Pittsburgh e si concluderà a “casa”, venerdì 6 dicembre a  Seattle.

Ma perché nell’epoca della cultura omologata e reality show si dovrebbe ancora voler ascoltare una band nata nei primissimi anni ’90? Ecco dieci valide risposte/ragioni:

1) Testi: Eddie Vedder è un paroliere eccezionale. Ha una profondità non comune. Ma non c’è solo lui. Le lyrics della band portano i nomi anche degli altri membri, a cominciare dal chitarrista Stone Gossard e il batterista Matt Cameron.

2) Musica: possono piacere o meno, ma è indubbio che siano tutti degli ottimi musicisti (a detta degli stessi colleghi non loro ammiratori). La sezione ritmica di Jeff & Matt è impeccabile. Le chitarre di Stone & Mike si completano. La voce e il carisma di Eddie chiudono il cerchio perfetto.

3) Live: la loro dimensione dal vivo è più unica che rara. Nessun effetto speciale. Solo loro, la musica e il pubblico. Sono ancora e sempre di più la band globale della porta accanto.

4) Forza: vennero dati per morti dopo il tragico suicidio di Kurt Cobain (1994) prima, e dopo la tragedia di Roskilde (2000) poi. Hanno sempre reagito con la normalità della poesia più visceralmente e reattivamente musicale.

5) It’s Evolution, baby: la storia dei Pearl Jam è la storia di molti di noi. Nei loro testi si delinea la crescita non solo artistica, ma anche e soprattutto come esseri umani.

6) Indipendenza: quando la band aveva pochissimi anni di vita, ha sfidato la potentissima Ticketmaster per far abbassare i prezzi di biglietti, senza dimenticarsi di cosa significa avere 20 anni e non poter andare a vedere un concerto. Nell’epoca dell’esplosione di MTV non hanno più fatto video, andandosene per la loro strada. Hanno suonato contro George W. Bush a New York pochi anni dopo il crollo delle Torri Gemelle beccandosi fischi e vedendo gente disertare l’arena. Non si sono fatti intimidire e hanno proseguito.

7) Arte: a partire da Vitalogy (1994) ogni cd ha assunto le sembianze di un vinile (amatissimo dalla band). L’art work viene spesso realizzato dall’esperto Jeff Ament. Una vera manna rispetto alla spettrale desolazione degli mp3.

8) Eterogeneità: tutti hanno portato avanti progetti paralleli. Matt Cameron ha addirittura ripreso posto nei tamburi dei Soundgarden, ma questo non ha minimamente intaccato la coesione e l’alchimia della band.

9) Temple of The Dog: con Matt ai tamburi, è probabile che presto o tardi divideranno un tour con i Soundgarden e sarà inevitabile che Chris Cornell si unisca a loro sul palco per suonare qualche pezzo dei Temple of the Dog, in eternal memory of Andy Wood.

10) Amiciza: di loro e di noi. Sono poche le band rimaste sempre le stesse da oltre vent'anni senza essersi mai prese pause. Dopo Dave Abbruzzese, alla batteria dei PJ si sono seduti Jack Irons (amico della band) e dal 1998 è subentrato in pianta stabile Matt Cameron, che li ha visti crescere. Per il resto sono sempre stati loro: Mike McCready, Eddie Vedder, Stone Gossard e Jeff Ament. Sono una famiglia. Un valore che si trasmette anche ai fan. Non si può essere fan dei Pearl Jam senza condividerne le battaglie e/o i valori. O meglio, si può ma non è la stessa cosa.

E se ancor oggi ti capita di avere la pelle d'oca anche solo guardando l’oceano di notte, non sarà difficile che le prime immagini che ti passino nella mente e nell'anima siano quelle di una loro canzone ascoltata insieme a una persona speciale. O anche da soli ma comunque veri... The ocean is full cause everyone's crying/ The full moon is looking for friends at hightide/ The sorrow grows bigger when the sorrow's denied/ I only know my mind/ I am mine

La storia continua.

Pearl Jam (da sx): Mike McCready, Jeff Ament, Matt Cameron,
Eddie Vedder e Stone Gossard
Atmosfera alla Hunger Strike sulla spiaggia di La Push (Wa, USA) © Luca Ferrari
La Push (Wa, USA) © Luca Ferrari

venerdì 12 luglio 2013

Neil Young, Old Crazy Horse

Neil Young & Crazy Horse in tour
È la storia della musica. Neil Young (Toronto '45). Il grande vecchio del rock. Album solisti. Live. Raccolte. Colonne sonore.

di Luca Ferrari
 
Neil Young.  Membro dei Buffalo Springfield, del supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young. Un album a metà anni ’90 con i Pearl Jam (Mirror Ball) e un ruolo fondamentale per la continuazione della storia della band. Una storia infinita con i Crazy Horse. L’ultimo album insieme, nel 2012, Psychedelic Pill.

Dal 1986, insieme alla moglie Pegi, organizza ogni ottobre-novembre a Mountain View (California) il concerto benefico Bridge School Benefit, per raccogliere fondi per i bambini disabili. Con la sola eccezione del 1987, l’evento si è sempre svolto potendo contare sul contributo di moltissimi grandi artisti. Nell’edizione 2012 si esibirono Neil Young and Crazy Horse, Guns n’ Roses, Eddie Vedder, Jack White, The Flaming Lips, Sarah McLachlan, Foster the People, Lucinda Williams, Steve Martin and the Steep Canyon Rangers, k.d. lang and the Siss Boom Bang, Gary Clark Jr. e Ray LaMontagne.

Dopo un’assenza lunga 12 anni, Neil Young & Crazy Horse (Frank "Poncho" Sampedro, Billy Talbot, Ralph Molina) suoneranno live in Italia giovedì 25 luglio in Piazza Napoleone al Lucca Summer Festival e l’indomani (26.07) all’Ippodromo delle Capannelle in occasione del Rock in Roma.

Pocahontas (live) by Neil Young & Crazy Horse

Neil Young è pronto per l'Italia

mercoledì 27 marzo 2013

Jason Newsted, here's the Metal

il possente bassista Jason Newsted
Abbandonati i Metallica, il possente bassista Jason Newsted è tornato con un nuovo singolo. E aprirà lo show milanese degli Slayer.

di Luca Ferrari

È stata l’ultima vera anima heavy metal dei Metallica. Le sue instancabili quattro corde hanno risuonato negli album ...And Justice for All (1988), Metallica (1991), Load (1996), Reload (1997), Garage Inc. (1998) e S&M (1999), quest’ultimo un doppio cd live con il meglio del repertorio della band interpretato insieme all’orchestra sinfonica di San Francisco diretta dal Michael Kamen.

Dopo la rottura con Hetfield e soci, il bassista Jason Newsted ha dato vita a due progetti: gli Echobrain prima e i Voivod poi, con cui ha realizzato tre album ciascuno.

Oggi, dopo qualche tempo di silenzio, il possente bassista originario di Battle Creek (Michigan) è tornato con un EP dall’eloquente nome Metal (2013, Chophouse Records). Quattro le tracce presenti: Soldierhead (4:16, di cui è anche uscito il videoclip), Godsnake (5:16), King of the Underdogs (6:00) e Skyscraper (6:36).

In occasione del tour della trash metal band Slayer, Jason sarà lo special guest per la quarta e ultima tappa italiana. Dopo Padova (Gran Teatro Geox, 15 giugno), Roma (Atlantico, 17 giugno) e Firenze (Obihall, 18 giugno), il bassista/cantante Tom Araya, il batterista Dave Lombardo e i chitarristi Jeff Hanneman e Kerry King saranno preceduti nel loro live milanese, all’Alcatraz mercoledì 19 giugno, da Jason Newsted.

Slayer: (da sx) Jeff Hanneman, Kerry King, Dave Lombardo e Tom Araya © Mark Seliger

domenica 24 marzo 2013

Touch me I’m Mudhoney

i Mudhoney live
Soundgarden, Alice in Chains, Brad e perfino un cofanetto dei Mad Season. Adesso tocca ai Mudhoney. Il sound di Seattle è più in forma e vivo che mai.

di Luca Ferrari

Il 13 novembre scorso è uscito King Animal, 6° album dei riuniti Soundgarden. Martedì 2 aprile prossimo invece, sarà la volta di Vanishing Point (2013, Sub Pop) dei “mai-scioltisi” Mudhoney, la band in cui avrebbe voluto suonare Kurt Cobain (1967-1994). 

Nuove produzioni in arrivo anche di Alice in Chains, Mad Season mentre non ci sono ancora notizie certe sull’undicesimo lavoro dei Pearl Jam. Il 2013 è iniziato all’insegna della sontuosa performance dei Brad ai Magazzini Generali di Milano.

Adesso è il turno delle ruvide alchimie punk rock di Mark Arm, Steve Turner, Guy Maddison e Dan Peters. Negli ultimi anni hanno bazzicato l’Europa in più occasioni con show energici e sempre molto applauditi. Quest’anno suoneranno live in Germania, Danimarca, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Svizzera e Italia. Un’unica data nel Belpaese, venerdì 31 maggio al Viper Theatre di Firenze (inizio concerto h. 21).

Touch me I'm sick, by Mudhoney

Mudhoney (Mark Am) live New Age © Luca Ferrari
l'intervista a Mark Arm e Steve Turner del giornalista Luca Ferrari per La Vetrina di Venezia
Mudhoney (Steve Turner) live New Age © Luca Ferrari

Mudhoney European Tour 2013

mercoledì 13 marzo 2013

Canzoni, la mia storia tra le righe


Canzoni che hanno segnato un’esistenza. Canzoni che ci accompagneranno per tutta la vita. Viaggio tra le righe della loro storia e dei ricordi personali.

di Luca Ferrari

Chi nella propria esistenza non ha le sue canzoni, quelle capaci di spalancare botole temporali e sentimentali? Viaggi impensabili. Soggettivi e speciali. Ascolto la placida Coccodrilli di Samuele Bersani e mi rivedo in treno verso la città di Liverpool. Dagli anni '80 al terzo millennio. Fino ad allora ignorata, ecco The Goonies 'R' Good Enough di Cindy Lauper e mi rivedo nel 2012 negli Stati Uniti in giro per l’Oregon.

Sarà che la prima rivista musicale che lessi fu Hard! e ne fui marchiato a fuoco dalla sezione "Between the Lines" dove venivano rivelati gli aneddoti delle canzoni più famose (Sweet Child o’ Mine, One, Smells Like Teen Spirit, etc.), fatto sta che oggi è arrivato il mio turno. Raccontare le canzoni. A modo mio, s’intende.

Ma farò di più del dire qualcosa sulla storia, il cd, la band, etc. perché una canzone non può essere solo una sequenza d’informazioni e per quanto belle possano essere le varie Smoke on the Water (Deep Purple), Stairway to Heaven (Led Zeppelin), Pure morning (Placebo) o la malefica versione di Sweet Dreams dei Marilyn Manson che sia, non vi diranno niente se non ci sarà un ricordo. Un momento particolare vissuto insieme a loro.

Ovviamente se qualcuno volesse raccontarmi la sua di canzone, Live on Two Hands è a disposizione. A dare il battesimo a questa sezione, la tonante Cochise (2002) degli Audioslave e posso già anticipare che nel corso dei prossimi mesi seguiranno i viaggi umano-musicali di War of Man (Neil Young), Freedom (Timoria), Jeremy (Pearl Jam), E-Bow the Letter (R.E.M. & Patty Smith), I fought the Law (Clash) e tante tante altre ancora.

I only know my mind
I am mine

I am Mine, by Pearl Jam

martedì 26 febbraio 2013

Brad, His Normality Stone Gossard

Stone Gossard, il chitarrista dei Pearl Jam
Ai Magazzini Generali di Milano i Brad col chitarrista dei Pearl Jam, Stone Gossard, hanno dato via a uno show  delicato di pura musica.

di Luca Ferrari

L'essenza del rock. Un gruppo di musicisti. Un palco a contatto col pubblico. Una serata fredda scaldata dalle emozioni trasmesse da quegli artisti. 23.02.13 – Il viaggio inizia da lontano. Ognuno a modo proprio. Sulla strada schizzano incessanti frammenti di neve e pioggia. Il freddo lì fuori non rallenta la marcia. Sull'autostrada A4 verso Milano il traffico scorre pulito e veloce. I mezzi spargisale sono in azione. 

Prima d’immergersi nella dimensione sonora dei Brad c’è il tempo di sentirsi più vicino alle proprie decisioni…C’è stato un giorno in particolare in cui hai preso confidenza con gli schermi della tua nascita o semplicemente hai calpestato qualche buca e te ne sei andato alla ricerca del cammino?/… Dalle lezioni del proprio inferno orizzontale c’è sempre una piantina in più dove nessuno vuol farci andare, e allora mi lancio in una previsione a prova di sedia, e questo è tutto per ora/… Mi lancio oltre le fiere sbarre di una sponda / Ma chi se importa, noi siamo sempre andati altrove

Sono appena le 6 del  pomeriggio e davanti all’ingresso dei Magazzini Generali c’è già un nugolo di fan che aspetta di entrare. I non conoscitori del locale scoprono a malincuore una certa esosità del guardaroba obbligatorio per borse e simili (3 euro, che aumenterebbero se poi si volesse aggiungere anche il giaccone o altro).

Ben Smith (New Killer Shoes)
L’organizzazione concertistica è perfetta. Alle h. 19.45 spaccate attaccano i New Killer Shoes. Inglesi di Redditch (contea del Worcestershire), eseguono una robusta performance di mezz’ora dimostrando che la gioventù non è solo un branco di cloni col mito dei soldi rappati, ma è anche una roboante miscela di punk, indie rock e quella genuina influenza assimilata a distanza da lassù, nella lontana capitale dello stato di Washington.  

Ricky-Lee Cooper picchia in modo possente. Al suo fianco nella sezione ritmica, il bassista Ryan Kings. Sarà che non lesina cori al microfono, sarà il taglio di capelli o sarà l’energia che scatena dalle quattro corde, ma rivedo germogli del Jason Newsted (Metallica) ultimi tempi. E mentre le chitarre di Ben Smith e Jon Kings (cantante) si alternano in assolo, la cosa fondamentale è che stanno suonando. Si divertono come semplici amici. L’essenza del rock.

Un'ora dopo e qualche spettatore giunto in più, e le luci si spengono per la performance dei Brad. Partono subito le canzoni. Il chitarrista Stone Gossard è inevitabilmente il più atteso. Mr. Normalità a tratti pare quasi emozionato davanti alla piccola folla raccolta. Viene difficile da credere che sia abituato a platee molto (ma molto) più grandi con i Pearl Jam. I Brad sono una famiglia. Alla batteria c’è Regan Hagar, tamburo originale dei Malfunkshun dove suonavano i fratelli Kevin e Adrian “Andy” Wood (1966-1990). Proprio lui, la voce dei Mother Love Bone che insieme a Stone e Jeff Ament ha lasciato ai posteri un solo e indimenticabile album, Apple. A dispetto della stazza, il cantante Shawn Amith ha una voce calda e delicata.

i Brad al completo
Hagar, Gossard e Smith sono i tre fedelissimi della band. Negli anni il bassista è stato cambiato più volte. Dal 2008 c’è Keith Lowe, mentre di recente si è aggiunto al quartetto anche il chitarrista/tastierista Happy Chichester.

“L’aspettativa per un concerto di una band che presenta tra le sue fila un elemento così importante per tutta la scena musicale di Seattle, avevo il timore distraesse la qualità dei Brad, mettendo più in luce il carisma di Stone” racconta un entusiasta Omar Nizzetto, partito dalla non proprio vicina Treviso per gustarsi lo show, “sono invece stato positivamente sorpreso perché da una parte i musicisti sono eccellenti e il concerto nel suo insieme è stato toccante, dall’altra la – star – è  stata oltremodo timida e in disparte. Forse per paura anch’esso di levare il giusto merito al gruppo per come suonano e non perché suonano con lui”.

Pur con più di vent’anni di carriera alle spalle e cinque album in studio già realizzati, i Brad sono al loro primo tour europeo. Fatto tappa in Inghilterra (Manchester, Birmingham e Londra), Francia, Olanda e Germania, a chiudere la serie di live nel vecchio continente è stata l’Italia, con le esibizioni di Milano e Firenze.

il cantante Shawn Smith
L'esibizione talvolta assume un’atmosfera dai connotati jazz. “Libero” dalla presenza di Mike McCready, questa volta Stone si è prodotto in qualche assolo che con i PJ non sono di sua normale competenza, ma riscuotendo comunque applausi, e cimentandosi inoltre anche come voce solista in Bay Leaf e con i tamburelli in 20th Century. Alle sue spalle Regan tiene il tempo con "Cameroniana" (Matt, ndr) precisione. 

Sul palco i musicisti s’indicano a vicenda. Ognuno cerca (e trova) l’applauso del pubblico per gli altri componenti. Qui non c’è posto per l’ego. In quelle band di Seattle esplose a cavallo degli anni Novanta non ci sono mai state prime donne. Ci si aiutava a vicenda e s’imparava gli uni dagli altri, come sottolineava anche il cantante dei Soundgarden, Chris Cornell, nel film Pearl Jam Twenty (2012, di Cameron Crowe).

mi sto trattenendo/… mi sto ammaliando/… sto solo alzando il volume dentro di me mi sto divertendo/… nessuno sguardo di cartapesta a illuminare future scritte rosse

Stone Gossard live in Milano
Il pubblico è soprattutto over 30. Ci sono fan di lunga data del sound di Seattle. Canzone dopo canzone, ai Magazzini Generali si sta sempre più stretti ma con spazio a sufficienza per far ondeggiare la testa e i capelli al momento opportuno. Si comincia con Takin it easy, quindi Good News, Nadine, The Only Way, Price of Love, Upon my Shoulders e via avanti senza quasi mai fare pause.  Giusto qualche parolina di saluto. Al momento del bis, oltre alla confermata cover immortale dei Rolling Stones, Jumping Jack Flash, una sorpresa. Sul palco ritorna solo Smith. Si accomoda davanti alla tastiera, lanciandosi in una delicata e poetica versione di Crown of Thorns dei Mother Love Bone.

“Shawn Smith, voce spettacolare. Il gruppo si è fatto valere anche per la presenza scenica. Mai sopra le righe ma sempre vissuta con partecipazione. Hanno proprio dato l’impressione di divertirsi a suonare e non che fosse una cosa dovuta" commenta ancora Omar, "Trovarsi comunque a cinque metri da chi (Stone Gossard, ndr) ha scritto gran parte delle canzoni con cui sei cresciuto e maturato, è stata una sensazione strana. Inutile ripeterlo, se mai ce ne fosse ancora bisogno, il tutto alla fine è sembrato normale come la sua presenza e la sua discrezione”.
 
A dispetto della buona resa nei dischi, ci vuole poco per capire che il meglio dei Brad sia la dimensione live. Finisce la performance alle 22.30 spaccate. Tutti salutano, e Stone è sempre un po’ defilato sul palco. Il tour europeo si chiude l'indomani con l'ultima tappa in terra toscana, poi si torna a casa. 

Il sound di Seattle però non si ferma. In aprile sbarca la Deluxe Edition di Above dei Mad Season con gl’inediti che vedono Mark Lanegan alla voce, quindi a maggio è il turno di The Devil Put Dinosaurs Here (Virgin/EMI), il nuovo disco degli Alice in Chains, e infine Vanishing Point (Sub Pop) dei Mudhoney. Il rock graffiante e distorto della band formata dal cantante Mark Arm, il chitarrista Steve Turner, il batterista Dan Peters e il bassista Guy Maddison sarà di scena venerdì 31 maggio al Viper Theatre di Firenze per l’unica tappa italiana del tour promozionale.

adesso la profondità delle mie acque può diventare la migliore delle buone notizie/…il fogliame dell’unico sentiero dell’amore ha ricoperto i mutati bastioni nascosti nella solitudine delle miglia/... l’intensità dei colori della pioggia suggerisce e solleva i tanti e prediletti blues di pruaallora non ho sbagliato a dire quello che succedeva dentro di me senza pensare a come mi sarei sentito anche domani

si torna a casa... Brad e New Killer Shoes

venerdì 22 febbraio 2013

Brad, una serata tra amici

Brad - da sx: Stone Gossard, Regan Hagar e Shawn Smith © Anna Knowlden
I Brad, side project del chitarrista dei Pearl Jam, Stone Gossard, sono in tour in Europa. Due le tappre previste nel Belpaese, a Milano e Roma.

di Luca Ferrari
 
È stato il chitarrista di Green River e Mother Love Bone. È un membro permanente dei Pearl Jam. In questi giorni però Stone Gossard è in compagnia di Regan Hagar, Shawn Smith, Keith Lowe e Happy Chichester. Loro sono i Brad da Seattle.

Sono sbarcati in Italia per raccontare la loro lunga avventura musicale a cominciare magari dal loro ultimo album United We Stand (2012, Razor & Tie Records) e senza lesinare sui passati lavori Shame (1993), Interiors (1997), Welcome to Discovery Park (2002) e Best Friends? (2010).

"Non sono nato per sentirmi vicino al momento
di credere a qualcosa che risulti automaticamente differente

andiamo pure oltreoceano, certo è che il giorno che tornerò
non avrò intenzione di risarcire il mondo di tutti quei mondi che potrebbero finire

non riesco a trovare alcuna ragione specifica...
me lo avrebbero detto da lì, ma non ci avrei mai creduto
perché mi porto dentro l’amarezza
di chi non si compiace nemmeno nel giudicare una collina

quale che sia  la filastrocca da imparare
non mi pare sia il caso di usare una vanga per chiudere le porte

porzioni di latte caldo non intralciano i contrabbassi
posti su quei laghi con cui voglio fraternizzare

fatemi tutti entrambi una sincera cortesia
di reciproco affetto, non stringetevi mai la mano
e io sarò pronto per non aspettare più prima di rifare quel tipo di valige

I Brad suonano live sabato 23 febbraio ai Magazzini Generali di Milano e domenica 24 al Viper di Firenze. Special guest, gl’inglesi New Killer Shoes.

Brad, the only way we are tonight.

Brad - da sx: Stone Gossard, Regan Hagar e Shawn Smith © Anna Knowlden
Brad - da sx: Stone Gossard, Regan Hagar e Shawn Smith © Anna Knowlden
Brad - da sx: Shawn Smith, Regan Hagar e Stone Gossard,© Anna Knowlden
Brad - da sx: Shawn Smith, Regan Hagar e Stone Gossard,© Anna Knowlden

giovedì 21 febbraio 2013

Free Pussy Riot, Babes in Stalinland

Free Pussy Riot
La censura putiniana di chiaro stampo stalinista chiude la bocca a chiunque pratichi il dissenso. L'urlo punk delle Pussy Riot si ribella.

di Luca Ferrari

I Sex Pistols sul Tamigi nel giorno del Giubileo della Regina. I Rage Against the Machine nella loro normale esistenza musicale, talvolta con il supporto nei videoclip diretti dal premio Oscar, Michael Moore. Jim Morrison negli anni della contestazione. Marilyn Manson in tempi più recenti. La sfilza di rockers finite dietro le sbarre è lunga. Ma per loro al massimo qualche giorno di galera. Le Pussy Riot invece sono state condannate a due anni di reclusione.

Un anno esatto fa, il 21 febbraio 2012, il trio punk russo delle Pussy Riot formato da Ekaterina Samutsevich, Maria Alekhina e Nadezhda Tolokonnikov irrompeva nella Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca. Passamontagna in testa, loro e altre ragazze a viso coperto, intonavano la loro preghiera personale di libertà contro la dittatura vigente, che inizia con un eloquente: Madre di Dio, Vergine, caccia via Putin!” - Madre di Dio, Vergine, diventa femminista, diventa femminista. Inni in chiesa per leader marci, una crociata di nere limousine. Il prete viene oggi nella tua scuola. Vai in classe. Portagli il denaro. Il patriarca crede in Putin. Quel cane dovrebbe credere in Dio.

Free Pussy Riot! (di A. Cristofari)
Alessandra Cristofari, redattrice della testata online Giornalettismo, ha realizzato il libro Free Pussy Riot! (2013, Editori Internazionali Riuniti) con prefazione di Sabina Guzzanti. Cento pagine scarse per raccontare una storia di libertà d’espressione stritolata. È la vicenda di tre ragazze che avremmo potuto conoscere anche noi. Tre ragazze come lo erano le colleghe americane Babes in Toyland. Tre ragazze come tante che avremmo potuto incontrare a un concerto, parlare di musica e innamorarci.

La Russia è tornata indietro. Sono molto lontani i tempi del "gorbaciofiano" Moscow Music Peace Festival (12-13 agosto 1989) quando agli sgoccioli della Guerra Fredda gli “alieni” Bon Jovi, Cinderella, Mötley Crüe, Skid Row, Ozzy Osbourne e Scorpions spiravano Winds of Change. Da decenni ormai si è tornati al modello Stalinista. Il dissenso non è previsto. Chi critica non viene risparmiato. Il dissidente Aleksandr Litvinenko prima, i giornalisti Anna Politkovskaja, Anastasija Baburova e Stanislav Markelov poi, sono solo gli ultimi nomi eclatanti di persone ammazzate alla luce del giorno da un regime fascista.

E poi ci sono loro tre. Tre ragazze come tante. Non basta andare all’Olimpski di Mosca e farsi scrivere sulla schiena Pussy Riot per cambiare qualcosa. L’intera comunità artistica e società civile libera è sotto attacco. Tre ragazze hanno avuto più coraggio di tante presunte organizzazioni pacifiste occidentali, brave solo a scagliarsi contro facili nemici di casa e senza mai alzare la voce aldilà di certi confini che evidentemente esistono ancora.

E il mondo della musica dovrebbe essere unito. A ben guardare però la storia, sono sempre pochi i nomi che si sono ribellati ai poteri grandi. Una delle ultime band capaci di fare il proprio dovere furono i Pearl Jam, che con appena pochi anni alle spalle seppero alzare la voce e ribellarsi contro la dittatura degli esosi prezzi dei biglietti imposti dalla Ticketmaster.

“Il canto delle Pussy Riot è la eco di un morso di serpente che incenerisce e ricrea dai detriti una sempre agonia, restituendo – per trenta secondi (la durata della loro “dissacrante” esibizione, ndr) – la sostanza che chi governa, annulla. La sola eccezione possibile all’autarchia” – Free Pussy Riot! (2013, di Alessandra Cristofari).

le Pussy Riot sotto processo prima della sentenza

mercoledì 20 febbraio 2013

Kurt Cobain, Come As You are

Kurt Cobain - l'ingresso ad Aberdeen (Wa-USA) © Luca Ferrari
On the road nello Stato di Washington. Lì nel mezzo c'è anche Aberdeen, dove il 20 febbraio 1967 nacque Kurt Cobain, futuro cantante e chitarrista dei Nirvana

di Luca Ferrari

Non potrei neanche immaginare quante poesie abbia scritto con sottofondo (e nell'anima) la musica dei Nirvana e la voce di Kurt Cobain. La sua musica è stato l'inizio di molto. La sua musica è stato l'inizio di Live on Two Hands che non sarebbe potuto nascere se non lì, in quella Seattle tanto sognata e immaginata, finalmente poi vissuta nel modo più semplice possibile: insieme a dei veri amici e una persona speciale. Come as you are, per l'appunto. Di fronte a quel cartello venivano giù secchiate di pioggia. Io ero lì, ad Aberdeen (Wa, USA) a fare ciò che ho sempre fatto: scrivere.

L'ORIGINE HA UN TEMPO

le nubi erano ovunque, il mare
è sempre stato minaccioso,
...una melodia nevrastenica… Non
è il vento,
non è la pioggia… Non è il vento,
non è la neve

anche se alla fine resteranno solo gli ideali,
e di tanto in tanto mi farò svegliare
dall’odore di colori e lamponi bruciacchiati,
tu non potrai che abitare in una strada nuova

la pietra è senza vita… sulle poesie fatte di pane,
furti inconsci di cioccolata abbeverata ed equilibri d’arancia

tutto è sempre deragliato
dalla mia indifferenza,
eppure quegli aerei decollano e non atterrano mai...

è proprio come nel libro che non hanno mai
scritto ... fingere, non importa...

Il rumore fastidioso di tutto il resto della mia oscurità.
Il lacrimicidio ha voltato pagina…

i margini si smarcano
dalla prima comunicazione mattutina
… non ho intenzione di cominciare
se prima non avrò immobilizzato
tutto il vostro sporco percorso di sangue

a questo punto della storia
qualcuno suggerirebbe di sapere di aver ragione
(Aberdeen [WA, USA], 3 Luglio 2012)

Come as You Are (videoclip), by Nirvana

Ruby Beach (Washington - USA) © Luca Ferrari

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