testo ricopiato e (sx) la copertina di Vitalogy (Pearl Jam) |
di Luca Ferrari
Precipitare, si. Perché non rimaneva altro da fare. È così che doveva essere. Sentendo gli spigoli di qualsiasi domanda togliere la vita a tutte quelle maschere capaci di rendere ogni porta una voce taciuta e vigliaccamente abbandonata. Non più. Non sarebbe più accaduto. Il passeggero chiedeva continuità. C'erano stati prima In Utero e l'Unplugged postumo dei Nirvana. Adesso era il momento di una nuova e definitiva rottura. Di tutto. Con tutto. Adesso era il momento di scrivere un impensabile presente. Da quel giorno iniziai ad ascoltare Vitalogy (1994), il terzo album dei Pearl Jam.
Erano entrati nella mia vita. Non da molto, ma stavano già facendo breccia e parecchio. Più che Once o Alive, le canzoni Jeremy, Garden e Black erano sempre più presenti nei mix di cassette dominate all'epoca da Nirvana, Iron Maiden e Guns ‘n’ Roses. Adesso era arrivato il momento di comperarsi “in quasi diretta” il loro nuovo album. Il terzo, Vitalogy (1994). Il primo dell'era post-Cobain e con Seattle già nello specchietto retrovisore dei trend giovanili orientati verso il Brit pop.
Faceva freddo ed io arrivai in campo S. Barnaba per il mio primo acquisto “PearlJammiano” in cd. Passato rapidamente da compact a cassetta, iniziai l'ascolto. Non ci capii nulla. Dovetti riascoltarlo. La notte intanto si avvicinava. I sogni furono esiliati. La minaccia di muri o palizzate venne immediatamente spazzata via con la furia di un addio senza nome. Il sonno fu dolorosamente inumidito da un'ondata di carta già troppo a suo agio con l'oscurità. Vomitare tutta la verità, non mi restava altro da fare. Ma per quanto sarei potuto andare avanti così? Non avrei immaginato di poterlo (saper) fare così a lungo.
Eccomi, sono solo. In compagnia di una premonizione su memoria che rimarrà stampata dentro. La strada ormai l'ho abbandonata. Sono alla deriva cibandomi del sale ingurgitato. Non ho pensieri di alcuna fede. Mi restano maledizioni. Non ho nulla a che vedere con qualsiasi forma di destino. Sto solo finalmente prendendo confidenza con le mie cicatrici. Ecco si, stavo finalmente prendendo confidenza con le mie cicatrici.
Non ero mai stato a mio agio con i fiori dei giardini e annesse recinzioni. Adesso, banalmente, avrò per tutti una ragione per avvicinarmici senza epidermide né scarpe . Le grinfie dell'obbedienza mi avevano rallentato il cammino. L’aborto di certe emozioni aveva lasciato le mie mani a recidere-ridere-regredire dalla schiavitù. L'abito del proprio sangue non lacrima mai senza prima essere sbocciato. Non ha importanza se oggi dormirò con la coperta. Domani comunque ne dovrò fare a meno.
Altari disertati. Colorazioni scambiate per supporti alla nostalgia. Anche se avessi voluto capire per cosa ero nato, adesso non avrei più potuto sedermi. E tutti ancora a guardare dall'altra parte. E tutti ancora a fingere di somigliarsi l'un l'altro/a. Mi sono appena arreso e voi avete tutti vinto, ma com'è che non riuscite più a rinfacciarmelo? Ho ancora un po' di tempo per ambire alla vicinanza di qualcuno o forse passerò in rassegna le foto del soffitto fino a lasciarmi attraversare dagli stessi vestiti dell'oggi.
Sono le 23.20 quando esangue arrivo a Immortality. A casa c'è silenzio. Tutti dormono. Nessun rumore più. Nessun domani da camminatore autorizzato. Tutto è dentro e lì ci resterà. Le ruote invisibili nascoste dietro le stelle avanzano ancora per qualche minuto nell’idea irrealistico-amichevole di piccoli orli salvifici. Il fango è incredulo, e per vedere scarabocchi bruciacchiati senza più tenaglie ci sarà ancora aspettare. Ma attendere cosa? Se avessi voluto dire al mondo qualcosa, adesso sarebbe troppo tardi per tirarsi indietro.
Whipping (Vitalogy - Pearl Jam)
il booklet di Vitalogy (Pearl Jam) |
parte di Vitalogy ricopiato a penna |
il booklet di Vitalogy (Pearl Jam) |
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