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Visualizzazione post con etichetta Stone Gossard. Mostra tutti i post
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venerdì 19 luglio 2024

Come On Down (Green River), l'amore è ovunque

Il 19 luglio 1994 scrissi la mia prima poesia. Trent'anni dopo celebro le mie parole con il sound distorto della scena underground di SeattleCome on Down (Green River). 

di Luca Ferrari

Un'emozione potente e annichilente. Un bagliore di oscurità veritiera e autentica. L'inizio di un viaggio fino a un attimo prima, nemmeno immaginato (né desiderato). Il 19 luglio 1994 la penna colpì la carta per la prima volta. Tutto il resto, adesso, sono trent'anni successivi. E se non avessi iniziato a scrivere, che cosa avrei fatto? Me lo sono chiesto ogni tanto. C'è stato un tempo in cui mi sentivo un predestinato. Solevo ripetere "Non ho una vita, ho un destino". Nel giorno in cui 30 anni fa ho iniziato a scrivere, raccolgo un po' le idee ma il mio pensiero è uno scorrere impetuoso nel presente, sguazzando felicemente nella vita che mi sono costruito anche grazie alla penna, sebbene con alterne fortune. A coronare questo giorno, una band di cui non avevo mai scritto fino ad ora su Live on Two Hands, eppure di fondamentale importanza (non solo per il sottoscritto). Il gruppo che diede un contributo cruciale alla scena alternativa della Seattle di fine anni '80/primi anni '90, i Green River.

Come On Down inizia semplicemente distorta, garage e punk. La potenza sale, poi seguita da un cantato quasi biascicato-sussurrato e quindi esplode in un fragore di decibel tra rabbia sonora e delicatezza verbale. All'epoca della mia prima poesia, il 19 luglio 1994, non avevo la minima idea di chi fossero i Green River. Ci sarei arrivato di lì a un paio d'anni, eppure quando ho pensato a quale canzone potesse celebrare al meglio i miei 30 anni di scrittura, mi è subito venuta in mente Come On Down, primo singolo dell'omonimo EP (1985). I motivi di questa scelta sono piuttosto elementari. È la prima canzone pubblicata di una band che diede poi vita a quel movimento rock che segnerà per sempre la città di Seattle. È una canzone che parla di andare giù in senso metaforico, e nulla come il rock mi ha trascinato in un'altra dimensione. I componenti sono alcuni dei musicisti che ascolto da una vita e che ho stimato fin dagli albori, a cominciare dal cantante Mark Arm, e il chitarrista solista Steve Turner, poi entrambi nei Mudhoney. Due persone che ho avuto l'onore di incontrare in quella che è stata l'intervista più sentita di tutta la mia attività giornalistica

L'altro chitarrista dei Green River è Stone Gossard, futuro membro dei Mother Love Bone, Temple of the Dog e Pearl Jam, sempre al fianco del bassista Jeff Ament, Green River inclusi. Mi è sempre piaciuto Stone perché lontano anni luce dagli stereotipi della rock star. Un viso qualunque della porta accanto capace di suonare in modo strepitoso. I suoi progetti paralleli ai Pearl Jam hanno sempre prodotto musica di altissimo livello, a cominciare dai Brad del compianto Shawn Smith (1965-2019). Stone Gossard è per certi versi l'emblema del rock come l'ho sempre sentito. La semplicità al potere. Come On Down fu l'inizio per la Seattle più conosciuta, e oggi, trent'anni fa, andava in scena il mio battesimo delle parole. Guardate la foto in primo piano. Scrissi il verso della canzone (sbagliato) in una di quelle eterne giornate solitarie senza nessun avamposto verso il domani. Appiccicato sul vetro del bagno. Una di quelle notti dove la bussola dei sogni s'incastrava tra sali e scendi ed ermetismi più estremi.

"Lift your eyes to the skies above
Come on in, feel my love
A little bit here,
a little piece there
Pieces of love everywhere... [...]
                             
Sinceramente non ho idea se il video qui riportato da Youtube fosse quello originale, ammesso che ce ne sia mai stato uno, o meno. L'ho visto e mi è piaciuto. L'ambientazione così onirico-psichedelica, tale da riecheggiare i demoni della futura serie I segreti di Twin Peaks di David Lynch, ambientata a North Bend (Wa), poco distante da Seattle.

Ci sono stati anni dove pensavo che la mia vita sarebbe stata sempre e solo scrivere. A dispetto di certi desideri innocenti, dentro di me non mi sentivo adatto a una vita familiare (quanto è bello ricredersi alla grande, ndr). Il 19 luglio 1994 iniziai a scrivere in inglese su fogli grandi a quadrattini colorati e fin da subito la struttura delle strofe dei testi di Nirvana e Pearl Jam mi penetrò talmente dentro che divenne una caratteristica del mio stile, sebbene del tutto estraneo a una qualsiasi affinità musicale. Senza nessuna presunzione, mi sentivo l'erede delle lyrics di Eddie Vedder, Kurt Cobain, Michael Stipe (R.E.M.) e Neil Young. Scrivere ha cambiato tutto nella mia vita. Io sono cambiato scrivendo. Adesso sono anni che non pubblico più nulla e nemmeno ho interesse a farlo. Ho smesso di cercare il mondo. Semplicemente, quella sensazione di amore dissolta nel vuoto, ha trovato la vi(t)a e l'anima nell'esistenza più autentica. 

...PIECE(S) OF LOVE EVERYWHERE...

tremuli passi, esondazione

di dolore a brandelli

senza bandiera... È un "no", non sono saggiamente andato avanti e riesco ancora 

a ricordare troppi giorni

… è sempre stato

un conglomerato tutto di forme e memorie,

quando vedo le ombre

nell'immagine longilinea

le mani gracchiano

in una (p)resa scomposta

che vorrebbe dire, altrove…

sono esattamente dove volevo

essere… sono dove

sono sempre stato… l’agonia della mia noia

ha conosciuto

l’ardore di una porta

galleggiante… anche la similitudine

di un desiderio

scambiato per un rimorso

è naufragato

nell’anomalia di una rivolta

scovata oltre i troppi arrendevoli sé…

andremo avanti

insieme questa volta... Ognuno di quei momenti

recava un gesto di attesa,

ogni ricerca ha trovato una fine

nell’ultimo sguardo

prima di essere sognato

dai sogni… Sono rimasto

al di qua dello specchio

provando a cadere ancora di più,

fili energetici sradicati,

e senza alcun conteggio

né incitamenti ad altro… è

un momento di non-confusione

… piante maneggiano nuove radici... è la profondità

dell'amore

tra le estremità di una lacrima

eterna...

(Venezia, 14.37, 19 Luglio 2024)

Green River - Come On Down

Murazzi, Lido di Venezia © Luca Ferrari

Il cd dell'EP Come On Down (Green River) © Luca Ferrari

mercoledì 28 ottobre 2020

Pearl Jam, l'ispirazione eterna di Daughter

Eddie Vedder (Pearl Jam) durante un'esibizione live di Daughter

La traccia di Daugther ancora mi insegue. Sono passati trent'anni dal primo concerto dei Pearl Jam ma qualcosa da dire insieme alla loro musica, ancora ce l'ho. E se poi ci si mette l'amore. 

di Luca Ferrari

Kurt Cobain ed Eddie Vedder hanno segnato il mio modo di scrivere poesie, o meglio testi come li ho sempre chiamati. Ma se il risultato finale è sempre stato il frutto di una composizione forsennata molto più simile alle "corde" del cantante-chitarrista di Aberdeen, fondatore dei Nirvana, la mera forma esteriore delle parole ha molto e naturalmente assimilato dai testi dei Pearl Jam. Non ho mai voluto riscrivere qualcosa, se non a forma di dedica per qualcuno di specifico, e le rare volte che ho sentito la voglia di scrivere qualcosa immaginando un sottofondo, la canzone che mi è sempre venuta in mente è stata Daughter, terza track del 2° album della band di Seattle, Vs (1993). Il perché, non ne ho idea.

Vs è un album fantastico, considerato (a ragione) il loro disco migliore. Non ha i capolavori di Ten, ma la qualità di ogni singola canzone è al di sopra del 9, cosa che il primo album dei Pearl Jam non possiede. Vs fu l'album della conferma. Vs fu l'album della dichiarazione spirituale della band, all'epoca ancora saldamente nelle mani di Stone Gossard & Jeff Ament, che non avrebbe cavalcato nessun facile successo. Oltre alle canzoni, la più grande eredità (insegnamento) che i Pearl Jam hanno impresso fin dagli esordi a fan e detrattori, fu proprio questo: una visione controcorrente e di elevatissima onestà intellettuale, degni eredi dei vari Neil Young, Bruce SpringsteenR.E.M.

Il 22 ottobre scorso i Pearl jam hanno celebrato 30 anni di carriera. Sono passati trent'anni infatti da quel primo epico concerto all'Off Ramp Cafe di Seattle, quando ancora si esibivano col nome di Mookie Blaylock. Non so se questo abbia influito. Non ho ascoltato dal vivo la performance quando l'hanno trasmessa però forse la loro ispirazione è tornata a serpeggiarmi dentro e con la complicità della vita quotidiana, riecco Daughter iniziare l'arpeggio in una sessione che mi ricorda tanto il mio primo contatto coi PJ, quando suonario dal vivo "Rearview Mirror" (sempre dall'ambum Vs). Adesso sono pronto. Non resta che impugnare qualche pensiero. Lasciarlo lievitare al riparo dalle distanze gelate di certe cadute, e ritrovare infine la via del calore più familiarmente umano. 


LIEVITO D'OMBRE E LETTURE


Possiamo dirci pronti

o è solo la risatina del timer

a farci interpellare

senza essere del tutto sopiti... Sono

stato sotto casa, e poi

ancora vicino alla fine del mondo,

nemmeno mi ricordo

dove sarei voluto andare... forse

semplicemente

non sapevo da dove partire


Qual è la forma delle ombre

a cui ti sei ispirata fin da (all)ora?

...

E lei non ha scelto un giorno casuale

per iniziare a parlargli

di suo padre... E c'era un tempo

dove le bruciature delle sue mani

erano maldestri tentativi

di star loro vicino... Ha dovuto

dimenticare in fretta favole

e rimpianti eppure c'è ancora una terra

e un fazzoletto che sventola...

Nella distanza ispezionata

tra il suo cuore e i sentimenti,

le differenze

hanno temperato steccati dove le lumache

si sfidano a sbirciare esiti e baratti


Ho provato a scaldarmi

con qualche scaglia avanzata dei miei sogni

caduti in disgrazia,

erano solo fenomeni senza vendi(ca)tori,

un circo senza oceano né prigioni

cui confrontarsi... Briciole

di storia... Innalzamento

della propria riserva emotiva... è

stata una figlia,

e adesso è una madre.

...

La sua vita è già una storia

richiamata a divenire per sempre...

(Venezia, 28 Ottobre '20)


Pearl Jam, live Daughter '94

Jefff Ament ed Eddie Vedder durante un'esibizione live di Daughter (Pearl Jam)

martedì 25 giugno 2019

Mother Love Bone, le star(dog) di Seattle

Mother Love Bone (da sx): B. Fairweather, G. Gilmore, A. Wood, J. Ament e S. Gossard © godssard
Prima di Mudhoney, Nirvana e Pearl Jam, la Seattle del rock è soprattutto Mother Love Bone. Sette anni fa io ci stavo andando e fu così che iniziai ad accordare nuovi sogni condivisi.

di Luca Ferrari

Sette anni esatti fa, il 25 giugno, a quest'ora del giorno mi stavo imbarcando all'aeroporto Marco Polo di Venezia destinazione Seattle. Un viaggio sognato da una via intera. Un viaggio che come ho sempre sottolineato fin dal mio ritorno, non è stato lontanamente ciò che avevo immaginato. Un viaggio che è stato il trionfo dei rapporti umani sulla solitudine del passato. Un viaggio che ha concluso uno di quei cerchi della vita lasciando finestre spalancate, portoni e ancor di più, mani e braccia unite. Io sono andato a Seattle con un'idea e da lì sono tornato con nuove convinzioni e la sensazione (certezza) che la vita, talvolta, sappia essere più profonda delle ombre.

Il primo pezzo di Live on Two Hands è una foto scattata proprio in quel viaggio, a Seattle. Il secondo, sempre da lì, ma questa volta è più un articolo dedicato a "tutti loro". Dedicato a tutte quelle band formatesi nel Nordovest americano che hanno alimentato la mia esistenza culturale. In quel viaggio verso Seattle c'erano tanti demoni che cercavano la propria collocazione. In quel viaggio misi insieme pezzi di mondi che molti anni prima nemmeno immaginavo avrebbero potuto coesistere. In quel viaggio a Seattle, il sangue sgorgato da un passato ancora oggi difficile da accettare, trovò nella felicità della condivisione un nuovo linguaggio e un'indelebile traccia per il domani.

In principio dunque ci fu la musica, e per il sottoscritto nessuno come i Mother Love Bone ha da sempre rappresentato al meglio la città di Seattle, e non a caso lo sfondo di questo blog è dedicato a loro. Più di Mudhoney, Nirvana e Pearl Jam. Forse perché c'erano loro prima di tutti, a eccezione di Mark Arm & soci. E non è un caso che quando stavo tornando col traghetto a Seattle dopo un giro in mezzo alla natura, passando anche per quell'Aberdeen natia di Kurt Cobain, lì, nelle cuffie stessi ascoltando proprio loro. Heartshine, Man of Golden WordsStargazerCrown of Thorns, la decadente-riottosa Gentle Groove e ovviamente lei, Stardog Champion, la prima canzone dei Mother Love Bone che ascoltai.

E non fu un caso che i miei primi e intensi sussulti nel documentario Pearl Jam Twenty (2012, di Cameron Crowe) li ebbi quando partirono le note di This Is Shangrila, facendo apparire la smaliziata "star" Andy Wood e subito dopo il volto sorridente di uno Stone Gossard ancora dannatamente ragazzino. Ecco, quelli erano i Mother Love Bone insieme agli altri tre membri del gruppo: il bassista Jeff Ament, il chitarrista solista Bruce Fairweather e il batterista Greg Gilmore. Quella era la fiaba dolce-metropolitana di uno spiritato gruppo di artisti che voleva lasciare un segno nel mondo e ci riuscì con la propria musica, un tragico destino e un'eredità umana ancora viva nella "smeraldina" semplicità della loro città natale.

Stardog Champion è un sali e scendi di rock allo stato brado, impreziosito da un assolo di chitarre dove il rock sembra davvero risorgere in una nuove veste ruvido-melodica dopo i lustrini e il machismo esasperato degli anni Ottanta. I Mother Love Bone però avevano molte affinità col glam rock, anche se più nell'aspetto che non nel sound, decisamente più figlio dei Led Zeppelin e di sicuro più imparentato con i futuri album dei Soundgarden che non con gli accordi di Poison o Twisted Sisters. Stardog Champion non è solo una canzone, è l'illusione diventata realtà. Riemersa dalle paludi senza ritorno, e pronta a essere intonata verso ogni spazzo di fosco azzurro.

Adesso non starò qui a raccontarvi la storia di questa band o del tragico epilogo del suo talentuoso cantante (1966-1990). Sono qui per condividere una storia. La mia storia insieme ai Mother Love Bone. Quello che mi hanno ispirato. Quello che abbiamo provato insieme . E quando, all'apice di una caduta senza fine, vedevo quei ragazzini danzare con sullo sfondo l'oceano e lo Space Needle di Seattle verso le battute finali del videoclip di Stardog Champion e l'inizio del coro fanciullesco, le ferite si squarciavano convinte che mai ci sarei arrivato. Allo stesso tempo, però qualcosa non smise mai di lottare furiosamente per non dissolversi. Quel qualcosa che sopravvisse fino a portarmi in una città i cui musicisti hanno segnato per sempre la storia della mia vita.


L’ALBA È PIÙ VICINA AL SOLE

Laica preghiera di cristallo, non è solo

una questione di sentimenti
respinti... Questo sono sempre stato io 
e non volevo che sprofondare 
diversamente... A chi tocca 
dare la propria ingloriosa versione? Tocca 
a te nasconderti
senza poter alzare la mano per primo...  

Nei lacci nascosti 
dentro i pugni abbandonati
non ci sono mai state mele 
capaci di indurmi a costruire una strada
di casa... Chi di loro si sarebbe immaginato
un simile sforzo? 
Mi riprendo gli spiriti 
lasciati inorriditi 
tra quadratini senza profezie 
né distorsioni di rappresaglia

Ho pensato di dire 
che anche i desideri abbiano la loro storia
di persecuzioni e tavole rotonde,
e io adesso lo sto sostenendo.
Sento che potrei avere qualche nuovo aneddoto 
da tramandare... 

Non avrei mai voluto tornare, 
ma il mondo non è cosa per chi era abituato 
a vivere senza domani... O almeno
questo era il mio pensiero...  

Torsoli riemersi  

dalle piogge primordiali... Oggi 
non edificherò consolazioni.
Aspetterò quelle antiche e solitarie luci 
del mattino andare oltre
il proprio oceano di tentacoli,
farò nuove amicizie 
e passerò un'intera giornata 
a danzare 
fino a quando non avrò davvero voglia 
di continuare a sorridere... Scenderò 
in cantina e mi siederò davanti 
all'uscio di una nuova abitazione… Farò tutto questo 
insieme a voi, 
mi metterò a piangere 
e poi lo rifarò ancora...  
                                                                                        (Venezia, 25 Giugno 2019)

Stardog Champion,
by Mother Love Bone


Ascoltando il rock dei Mother Love Bone davanti alla "loro" Seattle © Luca Ferrari
Ragazzini danzano sullo sfondo di Seattle (a dx lo Space Needle)
nel videoclip della canzone Stardog Champion dei Mother Love Bone
Seattle, murales in memoria del cantante Andy Wood e i Mother Love Bone © angy_bi

sabato 12 maggio 2018

Hunger Strike, l'eternità dei Temple of the Dog

La poesia musicale dei Temple of the Dog
Questa è una dichiarazione umana allo stato grezzo e non clonabile. Ho guardato il cielo da basso ripensando a quanto ancora significhi per noi Hunger Strike dei Temple of the Dog.

di Luca Ferrari

A sud delle nuvole, al centro del proprio sé. Emozioni dirette di abbandono e scatta la risposta. Non sarei onesto se dicessi che ci sono sempre stato. Fumare una sigaretta non è mai stato un gesto né un atteggiamento. Non potrò mai dimenticare quella sempre (im)paziente luna piena e chissà quante imperdonabili emozioni lasciate morire senza un degno presente. Oggi è diverso. Oggi sono sceso in strada. Non ho potuto far apparire il buio né l'oceano. Forse ho trascurato un diverbio ed è stata la mia nuova fortuna. Oggi ho la convinzione che tutte queste parole siano solo...


SCORRIBANDE DI SOLA ANDATA
  
strade in accumulo di soli invisibili… se
i cancelli arrugginiti e laterali
attirano le mie risposte più del tuo
medaglione, forse è ora che riprenda
il nostro cammino… ma
perché poi tutta questa oscurità
dovrebbe nascondere 
solo il mio nome?... e perché
poi questa sospensione di felicità
dovrebbe per forza riguardare 
il mio domani?

Corde, salvagenti e rincorse…
Fiabe, proboscidi e un totale disprezzo
per il cortile del vicinato… volevate
che fossi sincero
e allora perché non siete sulla sabbia
a cercare le mie meteore
infarcite di fulmini intercostali
e dediche senza destino?

Sotto le tegole
è più facile sentirsi in sintonia
con la propria incomprensibile
emotività… senza tegole
è più doloroso lasciar scorrere
tutto ciò che ci appartiene
ma perché me lo stai ancora chiedendo,
perché? Quella sarebbe
stata l’inizio di una storia,
questo è un momento
che spero presto di raccontare

Le troppe fiere da salotto
hanno ciascuna un pezzo dei nostri
segreti… ogni invadente rassegnazione
chiede il mosaico frammentato
di ciò che non saremo più in grado
di sopportare… allora, tu
vuoi andare avanti così? Non
dovresti proprio, e allora
lascia davvero gli ormeggi… anche le zattere
un giorno
troveranno il coraggio di frantumarsi
in un solo verso…
(Venezia, 12 maggio ’18)

Hunger Strike, by Temple of the Dog

sabato 12 ottobre 2013

Pearl Jam, Let the Lightning Bolt Play

i Pearl Jam da Seattle





















Hanno ispirato vecchie e nuove generazioni. La rock band americana Pearl Jam ha realizzato il decimo album in studio: Lightning Bolt.

di Luca Ferrari

Da più di vent’anni accordano quel mondo che non ha mai voluto arrendersi. Lunedì 14 ottobre 2013 esce il disco Lightning Bolt (Monkeywrench Records/Republic Records), 10° album dei Pearl Jam. A parte il batterista Matt Cameron (in pianta stabile dal 1998) e il tastierista Kenneth Boom Gaspar con i PJ dal 2002, gli altri quattro membri della band sono gli stessi degli esordi: i due chitarristi Stone Gossard e Mike McCready, il bassiste Jeff Ament e il cantante Eddie Vedder.

"In questo nuovo lavoro è sempre più Eddie a fare la differenza, elevando buone canzoni a grandi canzoni (Sirens, Future Days, Getaway)" racconta in esclusiva per il magazine online Live on Two Hands l’esperto "pearljammer" trevigiano Omar Nizzetto, in prima fila lo scorso febbraio al live milanese dei Brad (il side project di Stone Gossard).

"Poi ci sono delle sorprese musicali in grado di, letteralmente, rapirti con un ritmo che non ti aspetteresti (Infallible, Pendulum e in parte anche Father’s Son e Let the records Play)" prosegue, "Per onestà intellettuale, resta un po’ di amaro in bocca pensando che magari avrebbero potuto osare di più su altri pezzi invece di giocare sul sicuro su buone ma convenzionali song (Lightining Bolt, Mind your Manners, Yellow Moon)”.

Una carriera ormai più che ventennale quella dei Pearl Jam. Canzoni che sanno sempre emozionare (anche il peggior disco dei Pearl Jam è un raggio di luce in questa ormai decennale grigia depressione musicale, sottolinea deciso Omar). Un sound e uno spessore impermeabili a qualsiasi moda o presunta tale. Una solidità umana e una coscienza sociale degna erede dei vari Bob Dylan, Patty Smith, Bruce Springsteen, etc.

Sotto la sapiente e veterana produzione dell’onnipresente Brendan O’Brien, la band, formatasi nella Seattle dei primi anni Novanta, con l'album Lightning Bolt ha raggiunto la doppia cifra in studio. "L’attesa per un imminente nuovo album dei Pearl Jam è simile solo a quella che da bambino provavi sapendo che il giorno dopo saresti salito nella tua giostra preferita al lunapark” sottolinea Omar, "È la sensazione del giorno prima della festa, che a volte si rivelava più carica d’emozione che la festa stessa.

Ascoltare le prime note di un loro nuovo disco è come quell’attimo in cui l’energia alimentava la giostra e l’adrenalina ti coglieva in pieno. Ascoltare il resto del disco è stato come proseguire lungo le rotaie della giostra. Tra salite e discese, giri della morte e attese prima di ricominciare tutto daccapo. Ascoltare Lightning Bolt per la prima volta è stato tutto questo. Nuovamente".

Dodici le canzoni del nuovo album dei Pearl Jam, Lightning Bolt (2013):

01 Gateaway (3:26) – Chiamatela deformazione professionale, ma prima ancora che partano le note dell’inizio di Lightning Bolt, il titolo della prima canzone mi rimanda a vent’anni esatti fa. Alle lyrics di Scentless Apprentice (In Utero 2003) dei Nirvana dove Kurt Cobain siglava il suo marchio di fabbrica con semplici giochi di parole: get away (va via), get a way (scegli una strada). Inizio l’ascolto. Il ritmo sa di festa tra amici. Il basso di Jeff Ament scorre pulito. La voce di Eddie si alterna tra corse moderate e andature più lente. Ma questa non è una materia per scattisti. È una maratona e siamo appena all’inizio. Un lungo percorso dove ho il mio modo di credere  (I’ve got my own way to believe). Una strada infinita dove talvolta bisogna mettere tutta la propria fede nella non fede (Sometimes you find yourself having to put all your faith in no faith).

02 Mind Your Manners (2:38) – Il primo singolo e dunque già conosciuto. Confesso che mi entusiasmò poco. Song standard con fin troppo facili reminiscenze alla Spin the Black Circle, canzone quest’ultima vincitrice di un Grammy Award nel 1996. Un testo che pare attingere ancora dall’interiorità più riottosa non solo di Eddie, ma dell’intera band. Finale che più rock non si potrebbe. E già s’immagina uno stage diving di tutto rispetto. "Non sarà più tempo per i capolavori" annuisce Omar Nizzetto, "ma da questi cinque ragazzi ci si potrà attendere sempre e comunque il meglio"

03 My Father’s Son (3:07) – Il figlio di mio padre. Devo ancora ascoltarla ma con un titolo così me la immagino alla Daughter. Sarà così? Non resta che scoprirlo… Previsione del tutto errara. Il ritmo è decisamente più veloce rispetto alla terza canzone di Vs (1993). Qualche reflusso alla MFC (Yield). Il testo è profondo. Segreti, rancori e sofferenze. “Cannot forget you’re hiding collected wounds left unhealed/, When every thought you’re thinking sinks you darker than the new moon sky,/ The faraway lights rising in the whites of your eyes… Non posso dimenticare che hai nascosto ferrite lasciate senza cura/ Quando ogni pensiero che avevi ti faceva affondare nell’oscurità più nera del cielo senza luna/ Le luci lontane si stanno risvegliando nel bianco dei tuoi occhi”. Un finale con la chitarra di Mike che da come l’impressione di aver ancora molta energia da condividere.

04 Sirens (5:41) – L’altra canzone già nota, ribattezzata la I am Mine di questa nuova decade e facilmente riconducibile a essa anche per la somiglianza del video (e della chioma del singer, più corta però all’epoca di Riot Act, 2002). La track più lunga dell’album. Prendano nota i rocker più romantici perché qui c’è una farse da trascrivere a penna su una lettera e consegnare alla propria amata: “For every choice, mistake I made, is not my plan/ To see you in the arms of another man/ And if you choose to stay, I’ll wait, I’ll understand – Per ogni scelta, errore che ho fatto, non era nei mie piani di vederti tra le braccia di un altro uomo/ E se decidi di restare, aspetterò. Capirò”. Non riesco a non pensare che tra le parole finali della prima strofa, “But all things change, let this remain – Ma tutto cambia, lascia che questo rimanga”, la dichiarazione d’amore non sia solo quella tra due persone, ma da una band a se stessa. Una dolce auto-dedica che in molti condivideranno.

Pearl Jam, il video di Sirens
• 05 Lightning Bolt (4:13) – Tocca alla canzone che da il nome all’album, dualismo questo di cui non sono un grande fan. Un coro di chitarre dove già vedo Stone e Mike andare su e giù per il palco strizzando l’occhio a Ron (Wood) e Keith (Richards), scambiandosi di posto. Una canzone da sentire e cantare live assolutamente. 
 
06 Infallible (5:22) – Inizio alla Tremor Christ (Vitalogy, 1994). Miscela sonora anomala per i Pearl Jam. Lascio la testa viaggiare. Abbandono il tappeto di parole su cui continuo a correre. Anche se sono solo a metà tragitto, non mi pare di aver mai iniziato ed essere ancora davanti a uno stereo con la cassetta che gira. Senza nemmeno mezzo pensiero sul tempo che passa. Con l’assolo quasi finale ho la certezza di un’ombra seduta vicino a me. Silenziosa e piangente di commozione.

07 Pendulum (3:44) –“We are here and then we go/ my shadow left me long ago – Siamo qui e poi ce ne andiamo/ La mia ombra mi ha abbandonato molto tempo fa”. Ritmo più lento. Oscuro. Un viaggio sonoro senza superflui caratteri alfabetici e dove, se mai esistesse ancora qualcosa che non è come sembra, adesso è arrivato il tempo di confrontarsi. “I'm in the fire but I'm still cold – sono il fuoco ma ho ancora freddo” sussurra ad alta voce Eddie Vedder. Poi il tambureggiare di Matt Cameron semplicemente dice basta, e tutti eseguono. In silenzio.  Ad anime (sicuramente) unite.

08 Swallowed Whole (3:51) – Echi REMiani in questa nuova canzone. Boulevard aperti dove le finestre si aprono per recitare una preghiera zen, buddista o per ricollegarsi a ciò che si diceva all’inizio, a ciò in cui si crede. “I could choose a path, I could choose the word/ I could be the sun, I could be the sound/– Potrei scegliere un sentiero, Potrei scecgliere una parola… Potrei essere il sole, Potrei essere il suono”. Consigliabile da ascoltare con le luci plumbee di un’alba invernale.

09 Let the Records Play (3:46) – Ritmo incalzante e altra song dalla decisa propensione live. Se i Pearl Jam volevano dirci qualcosa, quel “I’ve been off but but I'm on my feet, my feet again – Sono stato lontano ma sono di nuovo sui miei piedi” è quanto di più genuinamente combattivo possa ergersi dalla loro monumentale normalità. O normale saggezza, chiamatela come vi pare.

10 Sleeping By Myself (3:04) – Per onestà di cronaca, è la prima che rimetto ad ascoltare. C’è qualcosa di “alatamente” poetico che mi sfugge. Esplode il tema dell’incertezza. “Forever be sad and lonely/ Forever never be the same/ Oh I close my eyes and wait for a sign/ Am I just waiting in vain? – Per sempre  triste e solo/ Per sempre mai lo stesso/ Oh, chiudo gli occhi e aspetto un segnale/ Sto aspettando invano?”. Per quelli che di Generazione X non volevano più sentir parlare, adesso si devono confrontare ogni giorno con qualcosa di ancor peggiore. Senza filastrocche da canticchiare sulla spiaggia. Ma no, non può finire così. Una rock lullalby per credere che si possa fare ricominciando da sé. “I’m beginning to see/ What's left of me is gonna have to be free to survive – Sto cominciando a scoprire/ Ciò che è rimasto di me sarà libero di sopravvivere”. Forse oggi ci meritiamo qualcosa di più della sopravvivenza ma è innegabile che tutto possa (ri)cominciare lasciandoci andare a un sogno. Chiudendo gli occhi. 

11 Yellow Moon (3:52) – La sofferenza non fa parte solo dei nostri specchietti retrovisori. Eddie Vedder prende fiato e non ancora pago dell’ispirazione del film Into the Wild, ritorna con un inno naturalista dove è impossibile distinguere tra stelle cadenti e ricordi/accordi. C’è una battaglia interiore da cui non si scappa. Qui, sotto la Luna, l’eco non è solo una voce uguale alle nostre parole. Un consiglio alla band: quando la suonerete in concerto, invitate Neil Young sul palco a metterci del suo.

12 Future Days (4.22) – E siamo alla fine. Si comincia con le delicate note di un piano e anche in questo caso preparino i fazzoletti i più sensibili. “If I ever were to lose you/ I’d surely lose myself/ Everything I have dear/ I’ve not found by myself – Se dovessi perderti/ Perderei sicuramente anche me stesso/ Tutto ciò che ho di più caro/ Non l’ho trovato da me”. Una canzone perfetta per chiudere un concerto. E ricominciare. Con l’accendino alzato per illuminare l’oscurità e ripetere tutti insieme “I believe and I believe ‘cause I can see/ Our future days, days of you and me – Io credo, io credo perché posso vedere i nostri giorni futuri, i giorni di te/voi e me”.

i nostri giorni futuri, i giorni di te e me... 

Pearl Jam (da sx): Mike McCready, Boom Gaspard, Matt Cameron, Eddie Vedder,
Jeff Ament e Stone Gossard

martedì 26 febbraio 2013

Brad, His Normality Stone Gossard

Stone Gossard, il chitarrista dei Pearl Jam
Ai Magazzini Generali di Milano i Brad col chitarrista dei Pearl Jam, Stone Gossard, hanno dato via a uno show  delicato di pura musica.

di Luca Ferrari

L'essenza del rock. Un gruppo di musicisti. Un palco a contatto col pubblico. Una serata fredda scaldata dalle emozioni trasmesse da quegli artisti. 23.02.13 – Il viaggio inizia da lontano. Ognuno a modo proprio. Sulla strada schizzano incessanti frammenti di neve e pioggia. Il freddo lì fuori non rallenta la marcia. Sull'autostrada A4 verso Milano il traffico scorre pulito e veloce. I mezzi spargisale sono in azione. 

Prima d’immergersi nella dimensione sonora dei Brad c’è il tempo di sentirsi più vicino alle proprie decisioni…C’è stato un giorno in particolare in cui hai preso confidenza con gli schermi della tua nascita o semplicemente hai calpestato qualche buca e te ne sei andato alla ricerca del cammino?/… Dalle lezioni del proprio inferno orizzontale c’è sempre una piantina in più dove nessuno vuol farci andare, e allora mi lancio in una previsione a prova di sedia, e questo è tutto per ora/… Mi lancio oltre le fiere sbarre di una sponda / Ma chi se importa, noi siamo sempre andati altrove

Sono appena le 6 del  pomeriggio e davanti all’ingresso dei Magazzini Generali c’è già un nugolo di fan che aspetta di entrare. I non conoscitori del locale scoprono a malincuore una certa esosità del guardaroba obbligatorio per borse e simili (3 euro, che aumenterebbero se poi si volesse aggiungere anche il giaccone o altro).

Ben Smith (New Killer Shoes)
L’organizzazione concertistica è perfetta. Alle h. 19.45 spaccate attaccano i New Killer Shoes. Inglesi di Redditch (contea del Worcestershire), eseguono una robusta performance di mezz’ora dimostrando che la gioventù non è solo un branco di cloni col mito dei soldi rappati, ma è anche una roboante miscela di punk, indie rock e quella genuina influenza assimilata a distanza da lassù, nella lontana capitale dello stato di Washington.  

Ricky-Lee Cooper picchia in modo possente. Al suo fianco nella sezione ritmica, il bassista Ryan Kings. Sarà che non lesina cori al microfono, sarà il taglio di capelli o sarà l’energia che scatena dalle quattro corde, ma rivedo germogli del Jason Newsted (Metallica) ultimi tempi. E mentre le chitarre di Ben Smith e Jon Kings (cantante) si alternano in assolo, la cosa fondamentale è che stanno suonando. Si divertono come semplici amici. L’essenza del rock.

Un'ora dopo e qualche spettatore giunto in più, e le luci si spengono per la performance dei Brad. Partono subito le canzoni. Il chitarrista Stone Gossard è inevitabilmente il più atteso. Mr. Normalità a tratti pare quasi emozionato davanti alla piccola folla raccolta. Viene difficile da credere che sia abituato a platee molto (ma molto) più grandi con i Pearl Jam. I Brad sono una famiglia. Alla batteria c’è Regan Hagar, tamburo originale dei Malfunkshun dove suonavano i fratelli Kevin e Adrian “Andy” Wood (1966-1990). Proprio lui, la voce dei Mother Love Bone che insieme a Stone e Jeff Ament ha lasciato ai posteri un solo e indimenticabile album, Apple. A dispetto della stazza, il cantante Shawn Amith ha una voce calda e delicata.

i Brad al completo
Hagar, Gossard e Smith sono i tre fedelissimi della band. Negli anni il bassista è stato cambiato più volte. Dal 2008 c’è Keith Lowe, mentre di recente si è aggiunto al quartetto anche il chitarrista/tastierista Happy Chichester.

“L’aspettativa per un concerto di una band che presenta tra le sue fila un elemento così importante per tutta la scena musicale di Seattle, avevo il timore distraesse la qualità dei Brad, mettendo più in luce il carisma di Stone” racconta un entusiasta Omar Nizzetto, partito dalla non proprio vicina Treviso per gustarsi lo show, “sono invece stato positivamente sorpreso perché da una parte i musicisti sono eccellenti e il concerto nel suo insieme è stato toccante, dall’altra la – star – è  stata oltremodo timida e in disparte. Forse per paura anch’esso di levare il giusto merito al gruppo per come suonano e non perché suonano con lui”.

Pur con più di vent’anni di carriera alle spalle e cinque album in studio già realizzati, i Brad sono al loro primo tour europeo. Fatto tappa in Inghilterra (Manchester, Birmingham e Londra), Francia, Olanda e Germania, a chiudere la serie di live nel vecchio continente è stata l’Italia, con le esibizioni di Milano e Firenze.

il cantante Shawn Smith
L'esibizione talvolta assume un’atmosfera dai connotati jazz. “Libero” dalla presenza di Mike McCready, questa volta Stone si è prodotto in qualche assolo che con i PJ non sono di sua normale competenza, ma riscuotendo comunque applausi, e cimentandosi inoltre anche come voce solista in Bay Leaf e con i tamburelli in 20th Century. Alle sue spalle Regan tiene il tempo con "Cameroniana" (Matt, ndr) precisione. 

Sul palco i musicisti s’indicano a vicenda. Ognuno cerca (e trova) l’applauso del pubblico per gli altri componenti. Qui non c’è posto per l’ego. In quelle band di Seattle esplose a cavallo degli anni Novanta non ci sono mai state prime donne. Ci si aiutava a vicenda e s’imparava gli uni dagli altri, come sottolineava anche il cantante dei Soundgarden, Chris Cornell, nel film Pearl Jam Twenty (2012, di Cameron Crowe).

mi sto trattenendo/… mi sto ammaliando/… sto solo alzando il volume dentro di me mi sto divertendo/… nessuno sguardo di cartapesta a illuminare future scritte rosse

Stone Gossard live in Milano
Il pubblico è soprattutto over 30. Ci sono fan di lunga data del sound di Seattle. Canzone dopo canzone, ai Magazzini Generali si sta sempre più stretti ma con spazio a sufficienza per far ondeggiare la testa e i capelli al momento opportuno. Si comincia con Takin it easy, quindi Good News, Nadine, The Only Way, Price of Love, Upon my Shoulders e via avanti senza quasi mai fare pause.  Giusto qualche parolina di saluto. Al momento del bis, oltre alla confermata cover immortale dei Rolling Stones, Jumping Jack Flash, una sorpresa. Sul palco ritorna solo Smith. Si accomoda davanti alla tastiera, lanciandosi in una delicata e poetica versione di Crown of Thorns dei Mother Love Bone.

“Shawn Smith, voce spettacolare. Il gruppo si è fatto valere anche per la presenza scenica. Mai sopra le righe ma sempre vissuta con partecipazione. Hanno proprio dato l’impressione di divertirsi a suonare e non che fosse una cosa dovuta" commenta ancora Omar, "Trovarsi comunque a cinque metri da chi (Stone Gossard, ndr) ha scritto gran parte delle canzoni con cui sei cresciuto e maturato, è stata una sensazione strana. Inutile ripeterlo, se mai ce ne fosse ancora bisogno, il tutto alla fine è sembrato normale come la sua presenza e la sua discrezione”.
 
A dispetto della buona resa nei dischi, ci vuole poco per capire che il meglio dei Brad sia la dimensione live. Finisce la performance alle 22.30 spaccate. Tutti salutano, e Stone è sempre un po’ defilato sul palco. Il tour europeo si chiude l'indomani con l'ultima tappa in terra toscana, poi si torna a casa. 

Il sound di Seattle però non si ferma. In aprile sbarca la Deluxe Edition di Above dei Mad Season con gl’inediti che vedono Mark Lanegan alla voce, quindi a maggio è il turno di The Devil Put Dinosaurs Here (Virgin/EMI), il nuovo disco degli Alice in Chains, e infine Vanishing Point (Sub Pop) dei Mudhoney. Il rock graffiante e distorto della band formata dal cantante Mark Arm, il chitarrista Steve Turner, il batterista Dan Peters e il bassista Guy Maddison sarà di scena venerdì 31 maggio al Viper Theatre di Firenze per l’unica tappa italiana del tour promozionale.

adesso la profondità delle mie acque può diventare la migliore delle buone notizie/…il fogliame dell’unico sentiero dell’amore ha ricoperto i mutati bastioni nascosti nella solitudine delle miglia/... l’intensità dei colori della pioggia suggerisce e solleva i tanti e prediletti blues di pruaallora non ho sbagliato a dire quello che succedeva dentro di me senza pensare a come mi sarei sentito anche domani

si torna a casa... Brad e New Killer Shoes

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