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Visualizzazione post con etichetta Seattle. Mostra tutti i post
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domenica 25 giugno 2023

Temple of the Dog – Say Hello to Seattle

La città di Seattle tra il booklet e il cd dei Temple of The Dog © Luca Ferrari

Il 25 giugno 2012 ero in partenza per Seattle. Un viaggio sognato da anni, e con due acquisti da fare: i cd dei Temple of the Dog e dei Mother Love Bone. Hello, Seattle!

di Luca Ferrari

Ci sono storie che non finiscono mai. Ci sono storie nate per bruciarsi e risplendere nel momento che diventano reali. La mia storia con la città e il sound di Seattle la potrei riassumere così. Ho aspettato a lungo ma alla fine tutto divenne realtà e nel modo più incredibile. Tanti anni or sono avevo fatto una promessa. Non solo avrei raggiunto la città epicentro delle band più significative per la mia vita, ma solo in quel viaggio mi sarei finalmente comprato due cd particolari: il solo e unico album dei Mother Love Bone, Apple (1990), e l'omonimo (1991) dei Temple of the Dog, il side project firmato dai neonati Pearl Jam insieme ai Soundgarden, in memoria del compianto Andy Wood (1966-1990), carismatico leader dei MLB per l'appunto.

10 canzoni, un album intero scritto per un amico dai suoi amici. Si comincia con l'eloquente Say Hello 2 Heaven (6:22). Si prosegue con la lunga e ipnotica Reach Down (11:11) dove Chris Cornell, se mai ce ne fosse ancora bisogno, fa sfoggio delle sue incredibili doti canore. Si raggiunge l'apoteosi con Hunger Strike (4:03), l'unica canzone cantata a due voci Cornell/Vedder. Si avanza con un il rock possente di Pushin' Forward Back (3:44) e via via le altre tra melodie, rock e tanta poesia umana:
Call Me a Dog (5:02), Times of Trouble (5:41), Wooden Jesus (4:09), Your Saviour (4:02), Four Walled World (6:53) e chiude All Night Thing (3:52).

In quel viaggio però, la musica fu solo sussurrata. In realtà, feci molto di più e meglio, incarnando negli amici raggiunti in terra americana quel mondo di semplicità così poeticamente scandito dai versi di quelle band. Il viaggio dei Temple of The Dog iniziò su di una cassetta duplicata da una conoscenza capellona. I nomi delle canzoni scritte a mano e al massimo l'immaginazione nel sognare quella città dominata dallo Space Needle. Quando comprai il disco, ricordo molto bene l'emozione. Una scarica così potente da farmi pensare a iniziare un'avventura musicale di scrittura proprio lì, a Seattle. Un viaggio, quello nel Nordovest americano, che mi portò anche ad Aberdeen, città natale di Kurt Cobain. Ciao, è il saluto più semplice che ci sia. Che si tratti di un amico o del paradiso, avremo sicuramente una strada da proseguire insieme. Hello, Seattle. Oggi e per sempre.

PARCO GIOCHI AL GRIGIO DI SOLE

nel cielo, oltre qualche zampillo

inesploso... è una lettera,

doveva essere una cerbottana

su cui non scrivo più…

oggi tra le strade

guardo nelle nuvole

sfogliando le tane salite

che ho baciato

attraverso e insieme a te

hai tempo

per sentirti meglio

nella tua vita?

hai tempo 

per aggiungere

un sogno

alla tua esistenza?

… i  tuoni non sono lontani

e la porta

è semplicemente aperta

rivedo già

i primi passi… confini

sbriciolati

e un corteo verdeggiante

… chi avrebbe voluto

andare fin laggiù

quando potevo aspettare

fino al giorno

del nostro primo incontro...

mi restano ancora

molte cose da dirti

… mi restano

ancora molte cose da dirvi

Veniamo tutti

da un’isola, poi a un certo istante,

la grazia 

ci farà incontrare ancora

per un nuovo interminabile

domani stellare (Venezia, 25 giugno 2023)


Temple of the Dog - Say Hello to Heaven

domenica 18 settembre 2022

Singles, la musica di Seattle

Il cd della colonna sonora del film Singles

Il 18 settembre 1992 uscì nelle sale americane il film Singles, dove il regista Cameron Crowe  immortalò la nascente scena musicale di Seattle. Tra le canzoni della strepitosa colonna sonora, il mio cuore ha sempre prediletto l'acustica Battle of Evermore (The Lovemongers).

di Luca Ferrari

Quel film l'ho visto in televisione, ho comperato la vhs originale e il cd della colonna sonora, che chiamarla "strepitosa" è dire poco. Sto parlando di Singles - L'amore è un gioco (di Cameron Crowe), sbarcato nelle sale americane il 18 settembre 1992. Un film in apparenza incentrato sulle vicende lavorative-amorose in stile Friends, ma in realtà incentrato sulla scena musicale di Seattle, ormai prossima all'esplosione. Eppure nonostante la presenta di pesi massimi quali Alice in ChainsPearl Jam, Mudhoney, Soundgarden e Mother Love Bone, la canzone che da sempre mi è rimasta scolpita nel cuore è Battle of Evermore, suonata dai The Lovemongers, side project delle sorelle Ann e Nacy Wilson, degli Heart, band formatasi anch'essa a Seattle verso la fine degli anni '60. 

Se si esclude l'inspiegabile presenza degli Smashing Pumpkins e il tributo a Jimi Hendrix, originario proprrio di Seattle, il resto è un tributo alle band della città del Nordovest, con la sola eccezione dei Nirvana.
  1. Would? — Alice in Chains 
  2. Breath Pearl Jam  
  3. SeasonsChris Cornell 
  4. Dyslexic HeartPaul Westerberg 
  5. Battle of EvermoreThe Lovemongers 
  6. Chloe Dancer / Crown of ThornsMother Love Bon
  7. Birth RitualSoundgarden 
  8. State of Love and TrustPearl Jam 
  9. Overblown Mudhoney 
  10. Waiting for SomebodyPaul Westerberg 
  11. May This Be LoveJimi Hendrix 
  12. Nearly Lost You Screaming Trees 
  13. Drown Smashing Pumpkins
Nei primi anni Novanta non esistevano le email né gli smartphone con la messaggistica istantanea. Per comunicare con le persone non c'erano che tre strade possibili: incontrarle, telefonarle da casa o in una cabina, scrivere una lettera. Per uno come il sottoscritto, la terza era la più consona e fu così che nel lontano 1995 iniziò una corrispondenza epistolare con una ragazza dagli stessi gusti musicali (dicasi amica di penna). Una persona che si rivelò una grandissima amica. Un'amica con cui, quando fantasticavamo a distanza su un ipotetico viaggio comune a Seattle, io nella mia anima ci vedevo sempre così, a suonare Battle of Evermore dei The Lovemongers. Lei voce-chitarra, io chitarra solista, terminando poi la performance con un abbraccio fratello-sorella.

Ancora oggi, ascoltare quella canzone mi riporta in un'epoca lontana fatta di parole, sogni e poesia. Quel mondo dopo tutto, è sempre continuato... 


STATO D’INCHIOSTO E IMMORTALITÀ 

io e te, ero solo io…

da parte, lanciandosi nella pagina chiusa

di una stella  senza fronde cui sorridere

Qualche lettera finita

In anticipo… ogni soglia,

un'estenuante presenza celeste

arpionata nella terra esposta


il ticchettio della fuga

non avrebbe sopportato

la vista dei grattacieli,

un giorno al massimo

mi avrebbero trovato addormentato

sotto una statua

di pan di albicocca e carrube


ho corso in mezzo all’acqua,

ho rischiato di annegare

non lo dico perché tu mi compatisca,

un giorno conoscerai

tutta la mia storia… Mi manca

ancora una bilancia e qualche respiro

… alla fine

sono arrivato dove mi sono sempre

visto… 


le marce imperiali

non si sono mai davvero interrotte,

non sono 

l’interlocutore ideale

quanto si tratta

di assumere una pozione diversa

da quello che ancora penso…


il suono sonoro

di uno spazio aperto, è l’oceano

che abbiamo sempre

intonato… quel mondo era lì

e lo siamo ancora, 

la semplicità di un ringraziamento

l’alfa che non ha mai cercato

un finale

(Bled [Slovenia], 18 Settembre ‘22)


Battle of Evermore, by The Lovemongers (OST Singles)

venerdì 6 novembre 2020

Gli assurdamente grandiosi The Presidents of the United States of America

The Presidents of the United States of America nel video di Lump
In attesa di conoscere il nome del 46° inquilino della Casa Bianca, mi sparo Lump dei mitici The Presidents of the United States of America. Una band assurda e grandiosa. 

di Luca Ferrari

Scatenati, rockettari di prim'ordine, impossibile da etichettarli in uno stile preciso. The Presidents of the United States of America sono una di quelle band più uniche che rare, appartenenti a quel non-genere che ha visto esprimersi in questa dimensione anche altri gruppi come Primus o Radiohead. Canzoni scoppiettanti e video azzeccatissimi, a cominciare da Peach, tratto all'album di debutto che porta il loro stesso nome (1995), dove i tre musicisti Chris Ballew (lead vocals, basso), Dave Dederer (chitarra, backing vocals) e Jason Finn (batteria, backing vocals) si trovavano ad affrontare dei temibili ninja. 

Ma ciò che dei The Presidents of the United States of America mi ha sempre colpito fu la loro provenienza (appartenza), la città di Seattle, e parliamo di una band il cui primo album uscì a metà degli anni Novanta. Seattle, la culla di band del calibro di Nirvana, Soundgarden, Mudhoney, Alice in Chains e Pearl Jam. E proprio contro il cantante di questi ultimi, Eddie Vedder, i PUSA a ragione si scagliarono, accusandolo di fare il paladino della loro città, salvo poi di aver tifato nelle finali di basket NBA'96  i Chicago Bulls di Michael Jordan e Rodman (di cui era amico), invece che per i Seattle SuperSonics di Gary Payton e Shawn Kemp, cui al contrario il trio aveva scritto la canzone Supersonics per celebrare l'evento.

In quel primo grandioso album, che vedeva anche una strepitosa e originale cover di Kick Out the Jams dei leggendari MC5, a trascinare un pubblico variegato, c'era anche Lump. Un sound energico che vedeva i tre The Presidents of the United States of America suonare su una chiatta a Elliot Bay, nel Puget Sound, davanti alla loro amata Seattle di cui si riconosce chiaramente lo skyline, Space Needle incluso a fine video. Ecco, mentre il presidente uscente Donald Trump continua a piagnucolare accusando chiunque di brogli e lo sfidante democratico Joe Biden attende la vittoria, io mi sparo a massimo volume Lump dei The Presidents of the United States of America, Immaginando di riuscire a invitarli a Venezia e suonare Lump a bordo di una caorlina lungo il Canal Grande. 


VE LO SPARO, MI SPARTISCO

spiegatemi la differenza
tra un bombardiere
e un lanciarazzi, oggi
vorrei sedermi accanto a voi
senza sapere
chi siete per davvero

Che senso ha
ascoltare i vostri dettati
quando ci sono persone
che non conoscerete mai?
Chi se ne frega
dei vostri sorrisi quando per vincere
dovrete promettere
che tanta gente morirà?

Vorrei avere una palude
e un universo... vorrei potermi
spostare solo sull'acqua
senza dovervi mao stringere
la mano... Vorrei stare
in silenzio e sapere che qualcosa
domani sarà differente

Prestami il tuo potere
e non farò i tuoi stessi danni,
fammi provare la tua boria
e me ne starò in divano
per tutta la durata del tempo
in cui sarò osannato

ho vinto io, ha vinto lui...
lui è stato sleale, io sono un fasullo
di fede... Lanciami
il tuo aldilà, ho voglia
di crogiolarmi nella disputa
di chi sarà l'ennesimo despota
della nostra contraffazione

sono pronto, e sono ispirato
sono irato, sono sul plateatico giusto
fatemi spazio
adesso tocca a me... fatevi da parte
mi sono appena caricato
(Venezia, 6 novembre '20)

 
Presidents of the USA, Lump

martedì 25 giugno 2019

Mother Love Bone, le star(dog) di Seattle

Mother Love Bone (da sx): B. Fairweather, G. Gilmore, A. Wood, J. Ament e S. Gossard © godssard
Prima di Mudhoney, Nirvana e Pearl Jam, la Seattle del rock è soprattutto Mother Love Bone. Sette anni fa io ci stavo andando e fu così che iniziai ad accordare nuovi sogni condivisi.

di Luca Ferrari

Sette anni esatti fa, il 25 giugno, a quest'ora del giorno mi stavo imbarcando all'aeroporto Marco Polo di Venezia destinazione Seattle. Un viaggio sognato da una via intera. Un viaggio che come ho sempre sottolineato fin dal mio ritorno, non è stato lontanamente ciò che avevo immaginato. Un viaggio che è stato il trionfo dei rapporti umani sulla solitudine del passato. Un viaggio che ha concluso uno di quei cerchi della vita lasciando finestre spalancate, portoni e ancor di più, mani e braccia unite. Io sono andato a Seattle con un'idea e da lì sono tornato con nuove convinzioni e la sensazione (certezza) che la vita, talvolta, sappia essere più profonda delle ombre.

Il primo pezzo di Live on Two Hands è una foto scattata proprio in quel viaggio, a Seattle. Il secondo, sempre da lì, ma questa volta è più un articolo dedicato a "tutti loro". Dedicato a tutte quelle band formatesi nel Nordovest americano che hanno alimentato la mia esistenza culturale. In quel viaggio verso Seattle c'erano tanti demoni che cercavano la propria collocazione. In quel viaggio misi insieme pezzi di mondi che molti anni prima nemmeno immaginavo avrebbero potuto coesistere. In quel viaggio a Seattle, il sangue sgorgato da un passato ancora oggi difficile da accettare, trovò nella felicità della condivisione un nuovo linguaggio e un'indelebile traccia per il domani.

In principio dunque ci fu la musica, e per il sottoscritto nessuno come i Mother Love Bone ha da sempre rappresentato al meglio la città di Seattle, e non a caso lo sfondo di questo blog è dedicato a loro. Più di Mudhoney, Nirvana e Pearl Jam. Forse perché c'erano loro prima di tutti, a eccezione di Mark Arm & soci. E non è un caso che quando stavo tornando col traghetto a Seattle dopo un giro in mezzo alla natura, passando anche per quell'Aberdeen natia di Kurt Cobain, lì, nelle cuffie stessi ascoltando proprio loro. Heartshine, Man of Golden WordsStargazerCrown of Thorns, la decadente-riottosa Gentle Groove e ovviamente lei, Stardog Champion, la prima canzone dei Mother Love Bone che ascoltai.

E non fu un caso che i miei primi e intensi sussulti nel documentario Pearl Jam Twenty (2012, di Cameron Crowe) li ebbi quando partirono le note di This Is Shangrila, facendo apparire la smaliziata "star" Andy Wood e subito dopo il volto sorridente di uno Stone Gossard ancora dannatamente ragazzino. Ecco, quelli erano i Mother Love Bone insieme agli altri tre membri del gruppo: il bassista Jeff Ament, il chitarrista solista Bruce Fairweather e il batterista Greg Gilmore. Quella era la fiaba dolce-metropolitana di uno spiritato gruppo di artisti che voleva lasciare un segno nel mondo e ci riuscì con la propria musica, un tragico destino e un'eredità umana ancora viva nella "smeraldina" semplicità della loro città natale.

Stardog Champion è un sali e scendi di rock allo stato brado, impreziosito da un assolo di chitarre dove il rock sembra davvero risorgere in una nuove veste ruvido-melodica dopo i lustrini e il machismo esasperato degli anni Ottanta. I Mother Love Bone però avevano molte affinità col glam rock, anche se più nell'aspetto che non nel sound, decisamente più figlio dei Led Zeppelin e di sicuro più imparentato con i futuri album dei Soundgarden che non con gli accordi di Poison o Twisted Sisters. Stardog Champion non è solo una canzone, è l'illusione diventata realtà. Riemersa dalle paludi senza ritorno, e pronta a essere intonata verso ogni spazzo di fosco azzurro.

Adesso non starò qui a raccontarvi la storia di questa band o del tragico epilogo del suo talentuoso cantante (1966-1990). Sono qui per condividere una storia. La mia storia insieme ai Mother Love Bone. Quello che mi hanno ispirato. Quello che abbiamo provato insieme . E quando, all'apice di una caduta senza fine, vedevo quei ragazzini danzare con sullo sfondo l'oceano e lo Space Needle di Seattle verso le battute finali del videoclip di Stardog Champion e l'inizio del coro fanciullesco, le ferite si squarciavano convinte che mai ci sarei arrivato. Allo stesso tempo, però qualcosa non smise mai di lottare furiosamente per non dissolversi. Quel qualcosa che sopravvisse fino a portarmi in una città i cui musicisti hanno segnato per sempre la storia della mia vita.


L’ALBA È PIÙ VICINA AL SOLE

Laica preghiera di cristallo, non è solo

una questione di sentimenti
respinti... Questo sono sempre stato io 
e non volevo che sprofondare 
diversamente... A chi tocca 
dare la propria ingloriosa versione? Tocca 
a te nasconderti
senza poter alzare la mano per primo...  

Nei lacci nascosti 
dentro i pugni abbandonati
non ci sono mai state mele 
capaci di indurmi a costruire una strada
di casa... Chi di loro si sarebbe immaginato
un simile sforzo? 
Mi riprendo gli spiriti 
lasciati inorriditi 
tra quadratini senza profezie 
né distorsioni di rappresaglia

Ho pensato di dire 
che anche i desideri abbiano la loro storia
di persecuzioni e tavole rotonde,
e io adesso lo sto sostenendo.
Sento che potrei avere qualche nuovo aneddoto 
da tramandare... 

Non avrei mai voluto tornare, 
ma il mondo non è cosa per chi era abituato 
a vivere senza domani... O almeno
questo era il mio pensiero...  

Torsoli riemersi  

dalle piogge primordiali... Oggi 
non edificherò consolazioni.
Aspetterò quelle antiche e solitarie luci 
del mattino andare oltre
il proprio oceano di tentacoli,
farò nuove amicizie 
e passerò un'intera giornata 
a danzare 
fino a quando non avrò davvero voglia 
di continuare a sorridere... Scenderò 
in cantina e mi siederò davanti 
all'uscio di una nuova abitazione… Farò tutto questo 
insieme a voi, 
mi metterò a piangere 
e poi lo rifarò ancora...  
                                                                                        (Venezia, 25 Giugno 2019)

Stardog Champion,
by Mother Love Bone


Ascoltando il rock dei Mother Love Bone davanti alla "loro" Seattle © Luca Ferrari
Ragazzini danzano sullo sfondo di Seattle (a dx lo Space Needle)
nel videoclip della canzone Stardog Champion dei Mother Love Bone
Seattle, murales in memoria del cantante Andy Wood e i Mother Love Bone © angy_bi

giovedì 7 maggio 2015

New Age Club, il ritorno dei Mudhoney

Mudhoney in arivo in Italia
Venerdì 15 maggio il genuino garage rock dei Mudhoney sarà on stage al New Age Club di Roncade (Tv), prima tappa delle tre date italiane.

di Luca Ferrari

Ghigni eternamente sarcastici. Suoni garage. Infusi di punk e sonorità psycho-blues. Una voce inconfondibile. Una band, come le celebri colleghe di Seattle, allergica alle mode. Per la terza volta in pochi anni i Mudhoney suonano live in Italia a cominciare dallo storico New Age Club di Roncade (Tv), teatro di un'indimenticabile performance nell'autunno 2009.

Nati dalle ceneri dei Green River (la cui altra metà confluì nei Mother Love Bone prima e Pearl Jam poi), i Mudhoney hanno pubblicato nove album nel corso della loro carriera, tornando inoltre a partire dal 2002 a incidere per quella storica etichetta, la Sub Pop, che non solo li lanciò agli esordì ma contribuì in modo indelebile a far conoscere il sound di Seattle esploso verso la fine degli anni Ottanta.

Membri della band, com 'è tipico di quei gruppo amici prima ancora che colleghi di stage, praticamente sempre gli stessi. A partire dagli esordi fino a oggi, il microfono e la seconda chitarra sono sempre stati occupati da Mark Arm, la chitarra solista da Steve Turner e la batteria da Dan Peters. Il posto al basso lasciato vacante da Matt Lukin nel 2001 è stato preso da Guy Maddison.

Touch Me I'm Sick, Hate the Police, Sweet Young Thing (Ain't Sweet No More), Burn It Clean, You Got It (Keep It Outta My Face), la cover SonicYouthiana Halloween, Suck You Dry, Blinding Sun, Judgement Rage Retribution And Thyme, Today is a Good Day, Where is the Future, The Lukcy Ones, sono alcune delle tante canzoni che puntuali i Mudhoney propongono e il pubblico, non solo chi i Nighties li ha vissuti dal vivo, risponde scandendo e agitandosi.

L'ultimo lavoro si chiama Vanishing Point (2013), fatto di 10 canzoni. “Un album ricco si del fervore del passato (indelebile dentro le proprie corde e ugole, ndr) ma allo stesso tempo un disco in cui la band racconta la propria esperienza/esistenza tra saggezza e humour. Un album che è una specie di bomba rock ‘n’ roll moderna di cui tutti abbiamo bisogno”.

I rockers di Seattle suoneranno dal vivo venerdì 15 maggio al New Age Club di Roncade (Biglietto in prevendita: 20 + 3 d.p euro biglietto in serata: 25 euro), sabato 16 maggio al Bronson di Madonna dell’Albero (Ra) e domenica 17 maggio al Bloom di Mezzago (Mb), per poi proseguire il tour europeo in Svizzera, Francia, Germania, Inghilterra, Scozia, Turchia, Serbia, Grecia, Islanda e quindi far ritorno negli States per altre date.

 Mudhoney live in cima allo Space Needle (Seattle)

Mudhoney - (da sx) Dan Peters, Steve Turner, Mark Arm e Guy Maddison

venerdì 19 dicembre 2014

Vitalogy, il mio testamento dei Pearl Jam

testo ricopiato e (sx) la copertina di Vitalogy (Pearl Jam)
Consapevolezza, verità e cicatrici. Nella notte del 23 dicembre 1994 ascoltai per la prima volta Vitalogy, il terzo album della rock band americana Pearl Jam.

di Luca Ferrari

Precipitare, si. Perché non rimaneva altro da fare. È così che doveva essere. Sentendo gli spigoli di qualsiasi domanda togliere la vita a tutte quelle maschere capaci di rendere ogni porta una voce taciuta e vigliaccamente abbandonata. Non più. Non sarebbe più accaduto. Il passeggero chiedeva continuità. C'erano stati prima In Utero e l'Unplugged postumo dei Nirvana. Adesso era il momento di una nuova e definitiva rottura. Di tutto. Con tutto. Adesso era il momento di scrivere un impensabile presente. Da quel giorno iniziai ad ascoltare Vitalogy (1994), il terzo album dei Pearl Jam.

Erano entrati nella mia vita. Non da molto, ma stavano già facendo breccia e parecchio.  Più che Once o Alive,  le canzoni Jeremy, Garden e Black erano sempre più presenti nei mix di cassette dominate all'epoca da Nirvana, Iron Maiden e Guns ‘n’ Roses. Adesso era arrivato il momento di comperarsi “in quasi diretta” il loro nuovo album. Il terzo, Vitalogy (1994). Il primo dell'era post-Cobain e con Seattle già nello specchietto retrovisore dei trend giovanili orientati verso il Brit pop.

Faceva freddo ed io arrivai in campo S. Barnaba per il mio primo acquisto “PearlJammiano” in cd. Passato rapidamente da compact a cassetta, iniziai l'ascolto. Non ci capii nulla. Dovetti riascoltarlo. La notte intanto si avvicinava. I sogni furono esiliati. La minaccia di muri o palizzate venne immediatamente spazzata via con la furia di un addio senza nome. Il sonno fu dolorosamente inumidito da un'ondata di carta già troppo a suo agio con l'oscurità. Vomitare tutta la verità, non mi restava altro da fare. Ma per quanto sarei potuto andare avanti così? Non avrei immaginato di poterlo (saper) fare così a lungo.

Eccomi, sono solo. In compagnia di una premonizione su memoria che rimarrà stampata dentro. La strada ormai l'ho abbandonata. Sono alla deriva cibandomi del sale ingurgitato. Non ho pensieri di alcuna fede. Mi restano maledizioni. Non ho nulla a che vedere con qualsiasi forma di destino. Sto solo finalmente prendendo confidenza con le mie cicatrici. Ecco si, stavo finalmente prendendo confidenza con le mie cicatrici.

Non ero  mai stato a mio agio con i fiori dei giardini e annesse recinzioni. Adesso, banalmente, avrò per tutti una ragione per avvicinarmici senza epidermide né scarpe . Le grinfie dell'obbedienza mi avevano rallentato il cammino. L’aborto di certe emozioni aveva lasciato le mie mani a recidere-ridere-regredire dalla schiavitù. L'abito del proprio sangue non lacrima mai senza prima essere sbocciato. Non ha importanza se oggi dormirò con la coperta. Domani comunque ne dovrò fare a meno.

Altari disertati. Colorazioni scambiate per supporti alla nostalgia. Anche se avessi voluto capire per cosa ero nato, adesso non avrei più potuto sedermi. E tutti ancora a guardare dall'altra parte. E tutti ancora a fingere di somigliarsi l'un l'altro/a. Mi sono appena arreso e voi avete tutti vinto, ma com'è che non riuscite più a rinfacciarmelo? Ho ancora un po' di tempo per ambire alla vicinanza di qualcuno o forse passerò in rassegna le foto del soffitto fino a lasciarmi attraversare dagli stessi vestiti dell'oggi.

Sono le 23.20 quando esangue arrivo a Immortality. A casa c'è silenzio. Tutti dormono. Nessun rumore più. Nessun domani da camminatore autorizzato. Tutto è dentro e lì ci resterà. Le ruote invisibili nascoste dietro le stelle avanzano ancora per qualche minuto nell’idea irrealistico-amichevole di piccoli orli salvifici. Il fango è incredulo, e per vedere scarabocchi bruciacchiati senza più tenaglie ci sarà ancora aspettare. Ma attendere cosa? Se avessi voluto dire al mondo qualcosa, adesso sarebbe troppo tardi per tirarsi indietro.

Whipping (Vitalogy - Pearl Jam)

il booklet di Vitalogy (Pearl Jam)
parte di Vitalogy ricopiato a penna
il booklet di Vitalogy (Pearl Jam)

domenica 24 marzo 2013

Touch me I’m Mudhoney

i Mudhoney live
Soundgarden, Alice in Chains, Brad e perfino un cofanetto dei Mad Season. Adesso tocca ai Mudhoney. Il sound di Seattle è più in forma e vivo che mai.

di Luca Ferrari

Il 13 novembre scorso è uscito King Animal, 6° album dei riuniti Soundgarden. Martedì 2 aprile prossimo invece, sarà la volta di Vanishing Point (2013, Sub Pop) dei “mai-scioltisi” Mudhoney, la band in cui avrebbe voluto suonare Kurt Cobain (1967-1994). 

Nuove produzioni in arrivo anche di Alice in Chains, Mad Season mentre non ci sono ancora notizie certe sull’undicesimo lavoro dei Pearl Jam. Il 2013 è iniziato all’insegna della sontuosa performance dei Brad ai Magazzini Generali di Milano.

Adesso è il turno delle ruvide alchimie punk rock di Mark Arm, Steve Turner, Guy Maddison e Dan Peters. Negli ultimi anni hanno bazzicato l’Europa in più occasioni con show energici e sempre molto applauditi. Quest’anno suoneranno live in Germania, Danimarca, Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Croazia, Svizzera e Italia. Un’unica data nel Belpaese, venerdì 31 maggio al Viper Theatre di Firenze (inizio concerto h. 21).

Touch me I'm sick, by Mudhoney

Mudhoney (Mark Am) live New Age © Luca Ferrari
l'intervista a Mark Arm e Steve Turner del giornalista Luca Ferrari per La Vetrina di Venezia
Mudhoney (Steve Turner) live New Age © Luca Ferrari

Mudhoney European Tour 2013

lunedì 2 luglio 2012

Seattle Sound, il rock

Temple of the Dog - Chris Cornell (Soundgarden) canta insieme a Eddie Vedder (Pearl jam)
Il sound di Seattle ha marchiato a fuoco la mia esistenza musicale (e non solo). Tutti gli articoli scritti su Live on Two Hands di quelle band li trovate in questo pezzo riassuntivo. 

di Luca Ferrari



Alice in Chains


Brad

Mad Season


Melvins

Mudhoney

Nirvana

Pearl Jam

Soundgarden

Temple of the Dog


domenica 1 luglio 2012

Seattle, Temple of Rock

Seattle, Silver Platters - (da sx) Alice in Chains, Soundgarden, Nirvana e Pearl Jam © Luca Ferrari
Quelle rock band le ho ascoltate per anni al di qua dell'oceano. Arrivato poi a Seattle, fu tempo di realizzare un'antica promessa musicale.

di Luca Ferrari

Internet, mp3. E che diavolo è 'sta roba? Per quelli nati della mia generazione un negozio di dischi poteva diventare un punto di ritrovo. Un luogo dove rifugiarsi. All’epoca c’era il 23 di Padova. Ed è giusto dunque che un blog musicale cominci da lì. Solo che adesso non sono in Veneto, e nemmeno in Italia.

"mi posso anche sbagliare ma la posizione dell’oceano non è mai casuale…che se ne fa il cielo di un crepuscolo capillare?…riesco a rivivere in pochi attimi di solitudine tutta quella vita che ha sempre rifiutato le dimissioni dei sogni" - Seattle, 1 luglio 2012

Ho superato l’oceano, e sorvolato tutto il Canada fino a sbarcare dentro il Puget Sound, a Seattle. E lì, poco lontano dalla spiaggia, sono entrato in un negozio di musica per portare finalmente a termine una promessa fatta a me stesso nel lontano 1996. Mi sarei comprato i cd Apple (1990) dei Mother Love Bone e l’omonimo (1991) dei Temple of The Dog solo lì, nella capitale dello stato di Washington.

Così è avvenuto. 16 anni dopo. Il 1 luglio 2012 al Silver Platters, in Lower Queen Anne. E i due acquisti sono stati ancora più incredibili perché sulle pareti dello store musicale c’erano vecchie locandine di "certe band" quando ancora non erano troppo conosciute. 

E così eccoli: Mudhoney, Green River, Melvins fino alla celeberrima copertina di Nevermind (1991, Nirvana) e quel volto impazzito di Facelift (1990, Alice in Chains). E poi a fianco di Dave Grohl, Kurt Cobain e Chris Novoselic (Nirvana) tutti gessati, l’immagine di Mike McCready, Eddie Vedder, Stone Gossard, Dave Abbruzzese e Jeff Ament (Pearl Jam) che uniscono le loro mani, direttamente dalla copertina dell'album Ten (1991), senza scordarsi dei quattro Soundgarden.

"…in qualche modo aveva lasciato spazio anche per quella direzione lasciata emergere…e ora sto parlando di tutti noi…e ora la storia si ripete ogni giorno nel risveglio comune di porre continuamente un'impronta sopra l’altra… e ora la sedia su cui camminano le nuvole intona le coordinate raggiunte" (Seattle, 1 luglio 2012)

Seattle, Silver Platters - l'ingresso nello store musicale © Luca Ferrari
Seattle, Silver Platters © Luca Ferrari
Seattle, Silver Platters © Luca Ferrari
Seattle, Silver Platters - l'unione fa Ten © Luca Ferrari
Seattle, Silver Platters - vecchia locandina dei Mudhoney © Luca Ferrari
Seattle, Silver Platters - vecchia locandina dei Soundgarden © Luca Ferrari
Seattle, Silver Platters - vecchia locandina dei Pearl Jam © Luca Ferrari
Seattle, Silver Platters - sullo sfondo a sx, Jimi Hendrix © Luca Ferrari
Seattle, Silver Platters © Luca Ferrai
Seattle, Silver Platters - (da sx) Alice in Chains, Soundgarden, Nirvana e Pearl Jam © Luca Ferrari

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