Jack Irons e Eddie Vedder (Pearl Jam) suonano Immortality
"[...] Some die just to live". Con la toccante Immortality, i Pearl Jam provano a farci accettare il tragico gesto di Kurt Cobain. Per altre scomparse invece, ci resta solo l'amore.
di Luca Ferrari È stata la canzone che ha unito in modo indissolubile Nirvana e Pearl Jam. È stata la canzone che con poche ispiratissime parole di Eddie Vedder ,è riuscita a dare una spiegazione a un gesto che ha segnato una generazione. Il 5 aprile 1994 Kurt Cobain si tolse la vita. Pochi mesi dopo, l'altra band di Seattle diede alle stampe il suo terzo album, Vitalogy(Epic, prodotto da Brenda O' Brien). Penultima canzone, Immortality, che racconta proprio gli ultimi tragici momenti del cantante-chitarrista, sublimati nelle lyrics: Some die just to live. Da allora sono passati 30 anni e alle volte ancora mi sorprende l'acqua passata sotto i miei ponti. E se la potenza di quelle parole insieme a una musica quasi ipnotica, in qualche modo, ci diedero una spiegazione, non esiste rimedio quando invece il dolore ti tocca da vicino, come accaduto in un più recente e incosolabile5 aprile.
OGGI + OGGI
oltre le onde del cielo,
dentro le nuvole del mare
…le candele non
bastano più… in questa fiaba
sul buon Aldilà
non ho custodi idonei
né ferite abbastanza recenti
per comprenderne il cammino
non c'è un nuovo giorno,
lo so bene... non esiste
nuovo giorno
dove non le abbia almeno rivolto
un pensiero di pura dolcezza
e non c’è giorno
in cui il sole non riveli
un’immagine
dove il suo cuore non ricerchi
un vostro abbraccio
non voglio incontrare nuove ombre
questa notte...
non vuole la sua ombra
almeno per questa notte… solo
la sua mano sui capelli
che l’accompagni
verso i sogni più belli
e io non posso fare nulla
se non darti ancora più amore
… e io non posso fare molto,
a parte una promessa
di continuo amore attorno e accanto a te
... ad alcuni capita solo di morire,
Un lungo viaggio per trovare/incontrare ciò o chi ami. Apoteosi poetica di Eddie Vedder, Hard Sun, dalla colonna sonora del film Into the Wild (2007, di Sean Penn).
Il viaggio più grande è stare accanto a una persona che ami per il resto della vita. Ai tempi "cinematografici" di Into the Wild (2007, di Sean Penn), l'amore era ancora così dannatamente difficile e dietro le migliori intenzioni c'erano reti sedimentate di insicurezze ed egoismi che chiedevano spazio a chi, al contrario, voleva qualcosa di più. Il cinema che mi accolse a vedere Into the Wild, fu una sala piccola. Ero da solo come volevo essere. Mi sentivo ancora solo. L'amore era meraviglioso sulla carta. Per viverlo davvero bisognava fare qualcosa di più. Per viverlo bisognava attraversare la tempesta e poi lanciarsi in un nuovo mondo insieme. Le colonna sonora di Eddie Vedder, cantante dei Pearl Jam, fu un'iniezione poetica dall'intensità devastante.
La voce di Vedder sapeva sfamarmi per lunghi periodi senza chiedere nulla. Una canzone dopo l'altra, quella colonna sonora fu un autentico amplesso con la poesia più profonda. Quella poesia che bastava immaginare anche solo una parola per sapere che fosse già scritta dentro di me. Dovevo solo mettere le dita sulla tastiera, ed è quello che facevo. Mettevo le dita sulla tastiera sprigionando una forza incontenibile. Era quello che facevo. Era l'unica cosa che sapevo fare senza pensare a tutte le pietre che nel frattempo si sbriciolavano. Hard Sun fu l'emblema di tutto questo. Vissuta poco tempo dopo sul lago di Trakai in Lituania, mentre audacemente passavo sotto un ponte per tornare in orario e riconsegnare il mezzo.
"When I walk beside her
I am the better man [...]" ... "Quando cammino accanto a lei
Sono l'uomo migliore [...]"
Hard Sun
Into the Wild e Hard Sun, ancora più di Society, fu la scelta (estrema) di qualcuno che credeva solo nella libertà dello spirito e dalla quale poi non ha più saputo far ritorno. In quell'ultimo testamento inciso sul legno, c'era una speranza d'amore: "la felicità è reale solo quando è condivisa". Spingersi al massimo e poi ecco la grande lezione della vita non scritta né da Jack London né da Jack Kerouac o chiunque altro. La grande lezione è la propria vita che trova il coraggio e l'unicità di essere vissuta come nessuno ha mai fatto prima. La grande lezione per la propria anima è guardare il proprio cuore e sentire che non appartiene più solo a se stesso. La grande lezione che in questo istante voglio tramandare, ricomincia proprio da lì...
...START THE LOVE
...è un mondo malinconico,
il ritmo della terra
si apre nelle acque
dove le buche si nascondono ancora
e l'alba
fa da enciclopedia e recita
delle mie canzoni preferite
c’è stato un tempo
che mi invitasti a sedermi
accanto a te... e c’erano
anche i sentieri
senza balconi… quando mi perdevo
non volevo mai andarmene via…
perché avrei voluto… perché
avrei dovuto ambire
a un'altra privilegiata libertà…
ho raccolto candele,
immaginavo la vita altrui
senza che l’amore
potesse diventarmi amico
adesso, è notte qui,
adesso è notte anche allora,
adesso sarà notte
anche nel mio immediato domani
accanto a te
il mondo si risveglia ogni giorno,
il peso dei nostri perché
non toglierà rugiada
all’abbraccio sincero del convoglio celeste
farò a meno di correre
e camminerò insieme a te,
non è una promessa
è quello siamo... le vette
continuano a crescere
fin sopra i raggi del sole
Lascia queste lacrime
sul mio viso… questa volta non si
seccheranno.. Queste lacrime
sono l'abbraccio
dei nostri cuori sul mondo
unico e reale...
Rock, poesia e bagliori di un impensabile futuro. 25 anni fa i, il 12 novembre 1996 assistetti al mio primo concerto dei Pearl Jam, a Roma, per il tour del nuovo album, No Code.
Il rock autentico dei Pearl Jam, per la prima volta dal vivo! Questo è più di un ricordo. Ciò che sto scrivendo e leggerete, è molto di più di un reportage musicale. Qui c'è l'essenza di ciò che è stata la mia vita (e in parte lo è ancora). In questo articolo c'è l'anima vulnerabile di Luca Ferrari. Quel viaggio iniziò insieme alla mia inseparabile agenda e le parole sputate dentro, on the road. Proseguì sulle rotaie tra cassette e sigarette. Si affacciò nell'attesa di ore e ore fuori dai cancelli. Infine arrivarono loro! Infine arrivò il momento della grande musica on stage. Fresco dei miei fragili e sfiancanti vent'anni appena compiuti, il 12 novembre 1996 andai al Palaeur di Roma a vedere per la prima volta i Pearl Jam dal vivo.
E mo' come comincio? Come si fa scrivere il ricordo di un evento di una tale portata emotiva? Come si fa a tramandarlo senza rischiare di deragliare di brutto? Io ci provo. Ci provo, per me, e per chi avrà la voglia (e la pazienza) di leggerlo fino all'ultima riga. Sarà un viaggio autentico e sfibrante. Conteso da traumi adolescenziali e scritte rabbio-riottose protese verso un insperato futuro, il 12 novembre 1996 andai a Roma per assistere al mio primo concerto dei Pearl Jam. Esattamente venticinque anni fa, all'ora esatta in cui è stato pubblicato questo lungo articolo di memorie umano-musicali, mi trovavo già davanti ai cancelli del Palaeur. Un'attesa lunghissima per vedere una band che da allora non ha più smesso di accompagnare la mia esistenza.
Faccio una doverosa premessa. All'epoca, così come avrei fatto nei successivi anni fino al 2004 circa, avevo sempre con me un'agenda (diary), dove annotavo pensieri, frammenti di poesie, tutto quello che mi frullasse nella mente. Una sorta di social network privato, con la differenza che mai e poi mai lo avrei mai fatto leggere ad alcuna/o, se non in rare e privilegiate occasioni. L'agenda che in quel momento stavo scrivendo, venne ovviamente con me. Impossibile pensare di vivere una simile esperienza senza una base di atterraggio per i miei vorticosi pensieri. Preciso questo perché alcuni dettagli ve li narrerò proprio sulla base dell'inchiostro sgorgato dentro quello scrigno, ancora gelosamente conservato. No Code era il mio album. Per certi versi, più di tutti. Ten e Vs li avevo "digeriti" insieme. Vitalogy fu il primo disco dei Pearl Jam che comprai non appena uscì in una gelida e solitaria serata d'inverno (22 dicembre 1994), nella più autentica e sofferente mutazione umana-emotiva. Vitalogy definì il mio DNA interiore, spalancando le porte di un legame immortale con la band di Seattle, il tutto mentre la poetica tormentata di Kurt Cobain bruciava/brillava/stava esplodendo dentro di me. No Code uscì a fine agosto 1996, in un altro momento cruciale della mia vita. Fu l'album dell'ispirazione "NeilYounghesca". Fu l'album col quale ruppi definitivamente col passato, scegliendo l'ignoto. Fu l'album che mi accompagnò in una lotta furiosa e senza sosta tra demoni interiori e incessanti lacrime come ponte levatoio verso le verità che dovevo trovare e comprendere.
Prima di quel momento, a parte i video, una sola volta avevo visto i Pearl Jam in diretta. Dal vivo, alla cerimonia di premiazione dei Grammy Awards '96, dove si divisero (nella mia anima) con la dolcezza spendente di Mariah Carey. Le notizie all'epoca si leggevano solo sulle riviste musicali, o se si era davvero fortunati, beccando qualche servizio su MTV. Così, quando li vidi sul piccolo schermo, non potevo sapere che di lì a qualche mese me li sarei trovati davanti. Li vidi dal vivo davanti al mio piccolo schermo e rimasi colpito dalla loro atipica autenticità, ma allo stesso tempo mi confermarono tutto quello che avevo letto e immaginato. Un qualcosa che avrei vissuto in modo ancor più ravvicinato e intenso, parecchi anni dopo, quando da giornalista intervistai i Mudhoney.
Arrivò il giorno della partenza. Pur avendo due t-shirt dei Pearl Jam comprate nei mercatini di Bologna e del Lido di Venezia, al concerto decisi che avrei indossato ben altro. Dentro l'arena avrei sfoggiato una maglietta bianca a maniche corte con una foto gigante di Kurt Cobain e la scritta sotto: 1967-1994: The End of Rock. La scelta non fu casuale. Non solo rappresentava il mio fortissimo legame con il cantante dei Nirvana, ma quell'indumento veniva dagli Stati Uniti, comprata da uno dei rarissimi ex compagni di scuola che potevo chiamare amico, e che me la portò dal viaggio post Maturità da New York. Io al contrario non feci nulla. Pur superata la prova finale, non avevo nulla da festeggiare.
Il viaggio in treno in Intercity da Venezia a Roma, 6 ore circa, fu un continuo e incessante ascoltare canzoni, partendo com'era mia abitudine dall'emblematica Train of Consequences dei Megadeth, e via via restando sui binari dell'heavy metal, in particolare, con profonde incursioni nella poetica di New Adventures in Hi-Fi (1996), capolavoro degli R.E.M. uscito appena due mesi prima. E i Pearl Jam? Niente? Quando vado a un concerto ho sempre sentito naturale la necessità di ascoltare poco la band in oggetto, e naturalmente a livelli disumani dopo se il concerto si sia dimostrsto all'altezza. Il live romano dei Pearl Jam fu l'apoteosi di questa dinamica.
Passata la notte da parenti romani, mi presentai ai cancelli prestissimo, quando l'orologio non segnava neanche le otto del mattino, con scorte alimentari ridotte al minimo (beata folle gioventù), trovando subito un gruppetto di persone ai quali unirmi. Molto introverso, lentamente mi feci trascinare dal contesto. Distesi tutti per terra, in particolare strinsi amicizia con un ragazzo di San Marino col quale provammo a giocare/scommettere su cosa i Pearl Jam avrebbero scelto per aprire lo show. Per la cronaca sbagliai di pochissimo. Dissi Last Exit (Vitalogy), che la band eseguirà per seconda. Nell'attesa, riuscii perfino a rivedere mia cugina di secondo grado, giunta sul posto appositamente per salutarmi, e trovandomi, dopo un bel po' che non ci si vedeva, in totale mutazione "capellona".
Le ore passavano e la massa si fece sempre più massiccia. Il sole intanto picchiava duro e la mia testa, dopo ore e ore, iniziò a vacillare. Venni lentamente risucchiato dalla folla, perdendo davvero colpi, e a un certo punto temetti per il peggio. Perse le prime file, riuscii a entrare ma la situazione sembrò davvero compromessa. Il mal di testa era talmente forte che non riuscii neanche a vedere la band di spalla, i Fastbacks, facendo su e giù in bagno a lanciarmi secchiate d'acqua gelida per ammorbidirmi il cranio. Un dettaglio di nota. Una volta entrato, fui invitato (come tutti) a lasciare la mia borsa a tracolla con dentro anche la mia preziosa agenda, in una specie di magazzino aperto.
Finalmente arrivò il momento tanto atteso. Trovai posto nell'ampia platea vicino a un gruppetto di ragazze poco più giovani di me e con cui ogni tanto condivisi qualche emozione sonora. Il concerto iniziò e... e fu uno shock! La prima canzone, Release, non la seppi riconoscere. Avevo atteso quel momento da mesi e adesso non avevo nessuna parola nella testa da poter cantare. Lo ammetto, ci rimasi parecchio male, poi per fortuna arrivò il turno di Last Exit e iniziai a sciogliermi... e a pogare. Il concerto dei Pearl Jam per me iniziò in quel momento.
Ricordo ancora, e bene, la mancanza di fiato dopo questo terzetto di capolavori suonato senza pause dalla band, e la fiammella dell'accendino (viola) tenuta per tutta l'esecuzione di Immortality, il commiato musicale di Eddie Vedder a Kurt Cobain sublimato nella tragica frase finale "Some die just to live". E poi lui, il gran finale di Rockin in a Free Wolrd di Neil Young. Esplosiva. Infinita. Travolgente. Strepitosa. Quasi non ci potevo credere di quello che avevo appena assistito. Dentro di me ripetevo: "Ancora non ci credo di essere qui, a Roma, in mezzo a migliaia fan dei Pearl Jam"... di cui al contrario a Venezia, non avevo nessuno con cui condividere la passione per questa band.
Ora un po' di cronaca da tramandare ai posteri. Attingendo a pearljamonline.it, il sito italiano dedicato ai Peal Jam attivo dal 2001, recupero l'esatta scaletta del concerto: Release, Last Exit, Animal, Hail Hail, Dissident, In My Tree, Corduroy, Better Man, Not for You, Even Flow, Daughter/Androgynous Mind (Sonic Youth)/W.M.A., Jeremy, Hunger Strike (Temple of the Dog), Black/We Belong Together (Rickie Lee Jones), State of Love and Trust, Sometimes, Rearviewmirror, Immortality, Lukin, Alive. Encore: Who You Are, Once, Present Tense, Smile, Rocking in the Free World (Neil Young).
Torniamo al 1996. La band si congeda. Recupero la mia sacca e me ne vado. Quando sono già sulla porta, mi accorgo di un errore atroce. Ho preso quella sbagliata. Torno indietro fulmineo e per fortuna la trovo ancora lì. Non voglio neanche pensare all'idea che l'avessi persa per sempre. Ok, adesso può cominciare la strada del ritorno. E adesso che si fa? Esco gonfio di ogni possibile sentimento ma di mezzi, neanche l'ombra. Dopo almeno un'ora di attesa, arriva un autobus su cui ci fiondiamo in massa, riuscendo ad arrivare alla stazione Termini, all'epoca chiusa. Con i pochi soldi rimasti, recupero un taxi andando fino alla Tiburtina, e lì trovo un treno che mi porterà a Milano, il tutto debitamente annotato sull'agenda (vedi foto).
Il problema adesso sarà stare sveglio per scendere a Bologna. Certo, potevo prendermela comoda e andare a fare la nanna nelle sicure pareti parentali, ma la cosa non mi è mai passata per la mente. Fin da principio avevo deciso che sarei tornato subito dopo la fine del concerto, per viverlo dentro e fuori la pelle e l'anima. È dura. Sonno e stanchezza mi avvolgono, ma grazie al mio inseparabile walkman che ora pompa PJ a getto continuo, riesco nell'impresa. Sono le 4 del mattino quando smonto nel capoluogo emiliano e un'ora più tardi, un Interregionale mi cullerà fino Venezia. Dormire? Non ci penso proprio! È l'ultima parte del viaggio (credo, ndr). Fermata dopo fermata, mentre i pendolari salgono a bordo, nel pieno della mia ribelle adrenalina, vedo il sole sorgere. Mi sento il cuore pieno di poesia e magia.
Ho solo vent'anni. Ho appena visto suonare i Pearl Jam e la consapevolezza di un'esistenza in totale caduta libera. Quello fu il viaggio. Il mio viaggio. Il mio concerto. Da solo in una metropoli. Quello che seguirà (appena) negli immediati due anni successivi, sarà un lungo ed estenuante assolo senza fine, in rotta/scontro verso nuovi significati del dolore nell'anima e nel fisico. Senza saperlo però, un germoglio del futuro più incredibile aveva appena iniziato il suo ciclo vitale. Quella t-shirt nera con il disegno del compact disc di No Code, comprata e indossata appena arrivato fuori dal Palaeur, un giorno chiuderà il cerchio di una delle più sincere e autentiche storie di amicizia. Adesso però, è ora di scrivere l'ultimo paragrafo. Un finale inaspettato e per questo, veracemente grandioso.
Sbarco distrutto alla stazione di Venezia Santa Lucia con la musica dei Pearl Jam che ormai è parte integrante di ogni mia molecola. Sono sudato, sfiancato ma pieno di energia rock. Non ho nessuna intenzione di tornare a casa e chiudermi in stanza. Da una cabina del telefono chiamo una mia carissima amica. Lei sta frequentando l'ultimo anno delle Scuole Superiori e sta per andare a scuola. Le vado incontro per berci un caffè insieme e darle un souvenir del concerto. Insieme a lei, c'è una delle sue migliori amiche che ho conosciuto qualche mese prima e con cui ho subito legato. Insieme a quest'ultima, 18 anni dopo, assisterò a un concerto dei Pearl Jam, a Trieste (2014), con i rispettivi compagni di vita. Prestatale dal sottoscritto, lei indosserà proprio quella maglia nera che comprai al concerto dei Pearl Jam il 12 novembre 1996, a Roma. E come faccio a non essere sentimentale adesso?!?...
IL BATTITO IMMORTALE DEL PRESENTE Non interrompermi,
non ho dormito neanche stanotte…
Mi sono scontrato
con il bagliore delle onde lunari… ... è stata una nuova sensazione
Ho paura che non sarò
più in grado d'imparare altro
per molto tempo...e non sarò
più in grado di tornare
indietro... Puoi scoprire
quanto tempo passerà prima che inizi
a capirlo insieme a te?...
Storia di recenti incursioni,
parole moderne, strade
tardive... Non sono certo
tu sia riuscita a vedere
dove mi sia affacciato... Non
mi sono distratto,
la tua calligrafia è ancora fresca...
Ho sempre guardato il sole
all’indietro perché un giorno pensavo
avrei trovato la mia strada… Poi
decisi di prendere sul serio
le ombre, e il sangue
si fece lacrime gravemente gentili
Prigioni cadute... Si sbriciolano
i fucili... Conchiglie come mulini
in una scia di fuoco
a lume di cammino… Storia di calpestio
di rugiada e sorrisi appena (s)conosciuti...
Consapevolezza e paracadute...
Ogni giuramento senza graffi
è un puzzle di recinzioni in meno
nella mia vita...
Avevo già rinunciato,
volevo rinunciare ancora…
… Nel nome dei sogni che non sapevo
più fare, mi strappai le braccia
per imparare a camminare... ho intinto
lo sguardo affogando
dentro la mia indifendibile innocenza
fino a barcollare
in un cerchio di vertici cognitivi,
equivalenti e interscambiabili... Erano i simboli,
erano nuvole, noi, esseri umani...
Il codice... La visione di un respiro... la mia
strada più gloriosamente senza fine...
…
La marea arrivò fin oltre la mia gola...
Ho trovato la forza
di proseguire... C'è qualcosa
che volevo chiedere
alle nostre mani... Credo a questo finale
perché siamo ancora così vicini
(Venezia, 12 novembre 2021)
I Pearl Jam dal vivo a Roma nel 1996
Un giovanissimo Luca Ferrari (settembre '96) e l'agenda con cui andai a Roma
Eddie Vedder (Pearl Jam) durante un'esibizione live di Daughter
La traccia di Daugther ancora mi insegue. Sono passati trent'anni dal primo concerto dei Pearl Jam ma qualcosa da dire insieme alla loro musica, ancora ce l'ho. E se poi ci si mette l'amore.
Kurt Cobain ed Eddie Vedder hanno segnato il mio modo di scrivere poesie, o meglio testi come li ho sempre chiamati. Ma se il risultato finale è sempre stato il frutto di una composizione forsennata molto più simile alle "corde" del cantante-chitarrista di Aberdeen, fondatore dei Nirvana, la mera forma esteriore delle parole ha molto e naturalmente assimilato dai testi dei Pearl Jam. Non ho mai voluto riscrivere qualcosa, se non a forma di dedica per qualcuno di specifico, e le rare volte che ho sentito la voglia di scrivere qualcosa immaginando un sottofondo, la canzone che mi è sempre venuta in mente è stata Daughter, terza track del 2° album della band di Seattle, Vs (1993). Il perché, non ne ho idea.
Vs è un album fantastico, considerato (a ragione) il loro disco migliore. Non ha i capolavori di Ten, ma la qualità di ogni singola canzone è al di sopra del 9, cosa che il primo album dei Pearl Jam non possiede. Vs fu l'album della conferma. Vs fu l'album della dichiarazione spirituale della band, all'epoca ancora saldamente nelle mani di Stone Gossard & Jeff Ament, che non avrebbe cavalcato nessun facile successo. Oltre alle canzoni, la più grande eredità (insegnamento) che i Pearl Jam hanno impresso fin dagli esordi a fan e detrattori, fu proprio questo: una visione controcorrente e di elevatissima onestà intellettuale, degni eredi dei vari Neil Young, Bruce Springsteen, R.E.M.
Il 22 ottobre scorso i Pearl jam hanno celebrato 30 anni di carriera. Sono passati trent'anni infatti da quel primo epico concerto all'Off Ramp Cafe di Seattle, quando ancora si esibivano col nome di Mookie Blaylock. Non so se questo abbia influito. Non ho ascoltato dal vivo la performance quando l'hanno trasmessa però forse la loro ispirazione è tornata a serpeggiarmi dentro e con la complicità della vita quotidiana, riecco Daughter iniziare l'arpeggio in una sessione che mi ricorda tanto il mio primo contatto coi PJ, quando suonario dal vivo "Rearview Mirror" (sempre dall'ambum Vs). Adesso sono pronto. Non resta che impugnare qualche pensiero. Lasciarlo lievitare al riparo dalle distanze gelate di certe cadute, e ritrovare infine la via del calore più familiarmente umano.
LIEVITO
D'OMBRE E LETTURE
Possiamo
dirci pronti
o
è solo la risatina del timer
a
farci interpellare
senza
essere del tutto sopiti... Sono
stato
sotto casa, e poi
ancora
vicino alla fine del mondo,
nemmeno
mi ricordo
dove
sarei voluto andare... forse
semplicemente
non
sapevo da dove partire
Qual
è la forma delle ombre
a
cui ti sei ispirata fin da (all)ora?
...
E
lei non ha scelto un giorno casuale
per
iniziare a parlargli
di
suo padre... E c'era un tempo
dove
le bruciature delle sue mani
erano
maldestri tentativi
di
star loro vicino... Ha dovuto
dimenticare
in fretta favole
e
rimpianti eppure c'è ancora una terra
e
un fazzoletto che sventola...
Nella
distanza ispezionata
tra
il suo cuore e i sentimenti,
le
differenze
hanno
temperato steccati dove le lumache
si
sfidano a sbirciare esiti e baratti
Ho
provato a scaldarmi
con
qualche scaglia avanzata dei miei sogni
caduti
in disgrazia,
erano
solo fenomeni senza vendi(ca)tori,
un
circo senza oceano né prigioni
cui
confrontarsi... Briciole
di
storia... Innalzamento
della
propria riserva emotiva... è
stata
una figlia,
e
adesso è una madre.
...
La
sua vita è già una storia
richiamata
a divenire per sempre...
…
(Venezia,
28 Ottobre '20)
Pearl Jam, live Daughter '94
Jefff Ament ed Eddie Vedder durante un'esibizione live di Daughter (Pearl Jam)
Poesia - a dx il cantante dei Pearl Jam, Eddie Vedder, durante uno show a Vancouver
Da Breath ad Animal, la musica dei Pearl Jam ispira. Se la band di Seattle vivesse in Italia, canterebbe dei migranti come già ne parlò sul palco nostrano il cantante Eddie Vedder.
Vi insultano. Vi deridono. Vi ridicolizzano. Vi augurano perfino di morire. Ecco una bella fetta di italiani che così scaricano le proprie frustrazioni di falliti umani contro i cosiddetti migranti. Per loro sono tutti uguali. Tutti viziati con l'orologio di marca che vengono in Italia a rubare. Il problema di verso questa feccia è che nessuno gli risponde abbastanza. Il problema di questo fetido liquame su due piedi, è che ancora non hanno capito con chi hanno a che fare. Perché chi si professa pacifista, non è come forse voi credete. Perché chi si professa pacifista, non resterà in silenzio mentre la tintarella dell'odio si propaga a macchia sui remi spezzati della vera fratellanza.
Nel corso del documentario Pearl Jam Twenty del regista premio Oscar, Cameron Crowe, dopo poco più di 25 minuti, quando il cantante Eddie Vedder sta cominciando a prendere confidenza sul palco, durante l'esibizione di Breath a un concerto al Town Pump di Vancouver, in Canada, gli agenti della sicurezza portano fuori un ragazzo ubriaco in malo modo. Vedder assistette alla scena dal palco e non gradì ma non si limitò a pensare. Non rimase in silenzio. Uscì dal guscio e attaccò. Poco prima di scrivere la seguente poesia, mi tornò in mente proprio questa scena e forse sarà il caso che in futuro io e molti di voi facciamo lo stesso.
Ascolto e riascolto le note arrabbiate di Animal, dal secondo album Vs. (1993) dei Pearl Jam. Poche semplici ed esplosive parole sostenute da un impianto sonoro pronto a esplodere. Storia di abusi e resistenza. Sono diventato padre da qualche anno e il mondo che vedo dinnanzi a mio figlio è sempre più impestato da odio ed estremismi votati alla prevaricazione. Leggo, mio malgrado, commenti in rete senza rispetto e pieni di tronfio razzismo nei confronti di persone che non hanno né nome né etnia, solo un generico "migranti". Possono cadere i muri, aprirsi i cancelli della morte o scatenarsi un virus letale, l'essere umano non è cambiato per niente. È tempo allora di rispondere. È tempo allora di combattere davvero contro questa barbara deriva , perché i nostri e i loro figli un giorno ci chiederanno perché li abbiamo lasciati morire.
Vs L'ARMATA DELLE SPONDE MORTE
Spingi l'odio, conficca
il tuo buon umore,
voi siete i sobillatori... i signorotti... i manganelli... le clausole... il gas nervino
Voi ci godete a venire a dircelo,
Lo fate in modo esemplare
Lo state facendo
con la schiuma e la fede più intransigente
Ci sono quelli
con i numeri sul braccio,
ci sono quelli
che galleggiano in fondo sul mare
…
Ci sono quelli che salvano
le formiche,
ci sono quelli che se ne vanno
calpestando anche le ultime briciole
di ciò che non gli appartiene
Il mondo oggi brucerà
e la colpa è di chi non ha nulla.
Il mondo oggi
ci cadrà ancora sopra i piedi,
... La vostra montatura
è bene al riparo tra le croci mistificate
dalle forme più diversificate
a prendere respiro
Un giorno
non ci sarà più il sangue
a proteggervi... Ci
siete riusciti. Ci siete
davvero riusciti. Adesso
l'idea che anche voi soffriate
non mi spaventa proprio più.
Un giorno toccherà
anche ai vostri figli
e su quella riva ci saremo
soltanto noi
Un giorno toccherà anche a voi
e tutt'attorno
ci saremo solo e soltanto loro.
Questa è una dichiarazione umana allo stato grezzo e non clonabile. Ho guardato il cielo da basso ripensando a quanto ancora significhi per noi Hunger Strike dei Temple of the Dog.
A sud delle nuvole, al centro del proprio sé. Emozioni dirette di abbandono e scatta la risposta. Non sarei onesto se dicessi che ci sono sempre stato. Fumare una sigaretta non è mai stato un gesto né un atteggiamento. Non potrò mai dimenticare quella sempre (im)paziente luna piena e chissà quante imperdonabili emozioni lasciate morire senza un degno presente. Oggi è diverso. Oggi sono sceso in strada. Non ho potuto far apparire il buio né l'oceano. Forse ho trascurato un diverbio ed è stata la mia nuova fortuna. Oggi ho la convinzione che tutte queste parole siano solo...