Ci sono giorni che cambiano la vita per sempre. Alle volte però, sono le non-azioni a compierli. Trent'anni dopo, la felicità del presente si stringe più forte che mai all'eternità del dolore.
Ciao, grazie per non avermi dimenticato. Sono passati 30 anni da quel giorno ed è bello vedere ciò che sei. Se ti fossi lasciato definitivamente sopraffare, le candele avrebbero continuato a bruciare ma l'amore non avrebbe avuto il piacere di raccontare il tuo C'era una volta... Ciao amico mio, un po' mi dispiace che non tu non sia riuscito a dimenticarmi ma comprendo le tue motivazioni. Hai scelto di andare avanti senza ignorare nulla. Mossa complessa e di sicuro non ti ha aiutato. Sappi che hai avuto molto coraggio e non solo disperazione, e forse è ora che tu accetti il valore delle tue scelte. Ciao amico mio, non hai avuto la vita che sognavi quando eri un bambino e ti fa ancora male, lo so bene. Ci sono tante cose che ancora ti mancano e che non avrai mai, semplicemente perché non le potrai più vivere. Ciao amico mio, ti sei fatto sfiancare dalle costanti aggressioni alla tua esistenza. Hai voluto caricarti di tutto il male che hai vissuto eppure l'amore per la tua famiglia è la forza che ti guida ogni giorno.
Ciao amico mio, è bello vedere che trent'anni dopo non mi hai dimenticato e allo stesso tempo che tu sia riuscito a conquistare il tuo continente di felicità. Molti prima di te hanno fallito in tutto questo ma tu no, andando oltre quelle stesse tue parole di una radio che ormai non si sarebbe più potuta spegnere. La radio è accesa, lo sai, ma lo sei anche tu. Sei vivo. Ciao amico, ti ho visto piangere nell'oscurità più rassegnata e poi sentire la speranza nel sorriso sincero di un incontro ancora lontano. Caro amico mio, ti ho visto toccare cieli nel modo più autentico come mai avresti potuto immaginare. Ciao amico, oggi stai vivendo una bellissima giornata e non hai idea di quanto ne sia felice. Per anni ti sei sentito un emarginato in costante fuga. Lo so, è una sensazione che ti porterai sempre appresso. Ciao amico, anche se adesso ti vorresti concentrare e avresti bisogno di silenzio, dentro di te stai sorridendo insieme a quella musica umana che hai sempre desiderato. Caro eterno amico mio, è un privilegio fare parte della tua vita.
INTERHUMAN
mi ferisco ancora
facilmente, ma esattamente
quanto è distante
la tua finestra dal sole?...
ho imparato
a seppellire le pistole da solo
anche se molti sconosciuti
potrebbero smentirmi
... la fiducia viene dopo
mi ricordo ogni
singolo istante di te… ho
sempre ammesso
di sapere che nulla
sarebbe stato come prima
ed è ancora così… Accanto
a me... Anche ora... Sono
accanto...
deragliamenti senza condizionale,
le scogliere sono più rilassate
anche senza l'omertà delle promesse
... non m’interessano più
nemmeno quelli
ci sono stelle
che continueranno a vagare
per le galassie
senza luce… è possibile
che ci siamo già incontrati?
ci sto mettendo troppo
ma la mia vita
è esattamente quella
che intravidi… c’era
qualcuno lì con me,
c’era qualcuno
oltre le promesse di un dolore
autentico… siamo tutti
Jack Irons e Eddie Vedder (Pearl Jam) suonano Immortality
"[...] Some die just to live". Con la toccante Immortality, i Pearl Jam provano a farci accettare il tragico gesto di Kurt Cobain. Per altre scomparse invece, ci resta solo l'amore.
di Luca Ferrari È stata la canzone che ha unito in modo indissolubile Nirvana e Pearl Jam. È stata la canzone che con poche ispiratissime parole di Eddie Vedder ,è riuscita a dare una spiegazione a un gesto che ha segnato una generazione. Il 5 aprile 1994 Kurt Cobain si tolse la vita. Pochi mesi dopo, l'altra band di Seattle diede alle stampe il suo terzo album, Vitalogy(Epic, prodotto da Brenda O' Brien). Penultima canzone, Immortality, che racconta proprio gli ultimi tragici momenti del cantante-chitarrista, sublimati nelle lyrics: Some die just to live. Da allora sono passati 30 anni e alle volte ancora mi sorprende l'acqua passata sotto i miei ponti. E se la potenza di quelle parole insieme a una musica quasi ipnotica, in qualche modo, ci diedero una spiegazione, non esiste rimedio quando invece il dolore ti tocca da vicino, come accaduto in un più recente e incosolabile5 aprile.
OGGI + OGGI
oltre le onde del cielo,
dentro le nuvole del mare
…le candele non
bastano più… in questa fiaba
sul buon Aldilà
non ho custodi idonei
né ferite abbastanza recenti
per comprenderne il cammino
non c'è un nuovo giorno,
lo so bene... non esiste
nuovo giorno
dove non le abbia almeno rivolto
un pensiero di pura dolcezza
e non c’è giorno
in cui il sole non riveli
un’immagine
dove il suo cuore non ricerchi
un vostro abbraccio
non voglio incontrare nuove ombre
questa notte...
non vuole la sua ombra
almeno per questa notte… solo
la sua mano sui capelli
che l’accompagni
verso i sogni più belli
e io non posso fare nulla
se non darti ancora più amore
… e io non posso fare molto,
a parte una promessa
di continuo amore attorno e accanto a te
... ad alcuni capita solo di morire,
Unico. Tagliente. Autodistruttivo. Come una versione live di Smells Like Teen Spirit. Il 5 aprile 1994 il cantante dei Nirvana, Kurt Cobain, si congedò dal mondo.
A denial...A denial... A denial... urla Kurt Cobainnel finale di Smells Like Teen Spirit (Nevermind, 1991). Una negazione... Il colpo di fulmine con Smells Like Teen Spirit avvenne in una camera d'albergo a Sappada (Bl). Avevo iniziato ad ascoltarla già da qualche mese ma negli ultimi tempi era diventato qualcosa di irrefrenabile al punto di poterla ascoltare per ore e ore. Poi, a un anno dalla scomparsa del cantante, arrivò uno speciale su MTV debitamente registrato su videocassetta con spezzoni presi anche da "The Year Punk Broke", il film-documentario musicale diretto da Dave Markey e incentrato sul tour europeo dei Sonic Youth nel 1991, in compagnia anche di Nirvana, Dinosaur Jr., Babes in Toyland, Gumball, The Ramones e Mudhoney. Questa versione più di tutte mi conquistò. Una versione selvaggia e punk, e quella ispirante scritta sul muro PUNK RULES (il punk regna), ritrovata poco tempo dopo da qualche parte in un'isoletta veneziana (...).
Di storie su Smells Like Teen Spirit e Kurt Cobain ne avrei a miriadi, ma alcune è giusto che restino solo dentro di me...
E LA NEGAZIONE, E UN ADDIO
da dove scendo,
è la conoscenza… rintanato
senza celebrazioni
a chi interessa? Un altro
perché, è tutta qui la nostra storia…
La parole
vengono dopo
a quei ricordi scalzi
ho cancellato l'ancora…tutto
quello che dovevo dire
in quell’epoca,
aveva le sue mura
e i nostri continui
tentativi di addebitare fiocchi
questa è l'immagine
volutamente sfocata
…qualcuno avrebbe
detto “sfondata”
il cerchio della vita
si colora di bianco… mi
sono fermato,
non era giusto?
Abbiamo fatto nostri salti
…quelli di noi
che si sono negati
una fine prematura,
oggi disegnano frutta morbidosa
con le movenze dei Sex Pistols
e saltellano
come trichechi abbandonati
dalle proprie uova
è facile, un urlo è il contagio
...il lascito resta una lacrima
...
(Venezia, 5 Aprile ‘24)
Nirvana - Smells Like Teen Spirit from "The Year Punk Broke" documentary)
Il testamento di Kurt Cobain. Le tende si adagiano delicatamente sulle ombre. Il 21 settembre 1993 fu pubblicato In Utero, l'ultimo album in studio dei Nirvana.
L'album della maturità (l'ultimo, ndr). Il disco dell'apoteosi "lyrica" di Kurt Cobain. Meno ruvido di Bleach. Meno immediato di Nevermind. Meno garage di Incesticide. Più di tutti, In Utero. Trent'anni fa, il 21 settembre 1993 uscì In Utero, quarto album dei Nirvana, prodotto da Jack Endino. Lanciato dal singolo Heart-Shaped Box, è un lavoro estremamente variegato e capace di esaltare al meglio le qualità della band di Seattle. In Utero è poesia musicale strappata dai diari e analizzata con un linguaggio diretto ma implicito, marchio di fabbrica del cantante-chitarrista di Aberdeen. Un lavoro dove il tormento dell'artista ha la meglio sull'essere umano. In Utero, l'album che in origine Kurt voleva chiamare "I Hate Myself and I Want to Die" (Mi odio e voglio morire, ndr). Con il disco In Utero è la fine delle illusioni di una generazione che dovrà andare avanti (chi ci riuscirà) a dispetto delle infinite domande che continueranno a bruciare l'anima... RIP. Heart-Shaped Box, Rape Me, Dumb, Serve the Sevants furono le prime canzoni di In Utero che mi entrarono in circolo. Mese dopo mese apprezzai questo disco sempre di più, e se c'è un album che fece da spartiacque nella mia vita, dopo gli Iron Maiden di Fear of the Dark, di sicuro In Utero segnò il mio definitivo passaggio al rock. In realtà fece molto di più. Non solo mi portò a scoprire tutta la scena di Seattle, ma plasmò il mio modo di scrivere facendomi (inconsciamente) innamorare dell'essenzialità della lingua anglosassone, cosa di cui Cobain era interprete sopraffino, usando poche parole ma piene di potenza emotiva. Emblema di tutto ciò, Radio Friendly Unit Shifter, dove la strofa I love you for what I am not/ I do not what I've got", catturarono tutta la semplice essenza di un giovane musicista.
I miei ricordi su In Utero sono sconfinati, a cominciare dalle domeniche passate in trepidante attesa che MTV trasmettesse il video di Heart-Shaped Box, con videoregistratore già pronto e corsa in salotto per farlo partire. In Utero fu il primo compact disc che volli assolutamente. Poco dopo la morte del cantante, uno speciale sui Nirvana si concluceva sulle note di All Apologies e un dolcissimo quadretto familiare: Kurt imboccava la figlia Frances Bean vicino alla moglie Courtney, mentre la piccina spostava il faccino "capriccino". Se la vendicativa Rape Me definì molto del mio pensiero sul mondo, ancor più potente fu la "sentenza" di Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle, dedicata all'attrice americana Frances Farmer (1913-1970), originaria proprio della Emerald City, e lobotomizzata nel modo più brutale.
Le parole di quest'ultima: "She'll come back as fire To burn all the liars Leave a blanket of ash on the ground - Lei tornerà come il fuoco per bruciare tutti i bugiardi e lasciare per terra un mucchio di cenere per terra" ebbero l'effetto di un tornado devastante dentro la mia vita (dell'epoca), sempre più ai margini. Una volta mi fu rivolta una domanda, e io risposi esattamente con queste parole. Forse c'entravano. Forse no. Non aveva importanza. In quella frase c'era tutto il mio essere: ferita, vendetta, dichiarazione d'indipendenza. Più di tutti gli album dei Nirvana, fu proprio In Utero ad accompagnarmi nella lettura del volume "Come as you are. Nirvana. La vera storia" di Michael Azerrad, sempre in solitaria davanti alle onde del mare a scogliera. Un libro questo, che ancora conservo.
Torno su Rape Meperché merita un paragrafo a parte. Rape Me è l'emblema del Cobain-pensiero. Emblema di quello che la musica di Seattle fu per il mondo. La risposta del rock più autentico al macho-sessismo che Kurt odiò fin da ragazzino. Se i Mother Love Bone erano in parte debitori (musicalmente) del glam rock di L.A., per Cobain era il peggio che ci potesse essere. Primo bersaglio di quella cultura, i Guns 'n Roses, definiti senza mezzi termini "patetici sessisti senza talento". Un commento che diede vita a uno scontro culminato anche in zuffa e un Axl pieno di risentimento visto che corteggiava non poco i Nirvana e li avrebbe voluti al loro fianco in tour. Kurt Cobain era un sostenitore del movimento Riot Grrl. Per Cobain la donna era una persona con un cervello in primis e non un corpo su cui vomitare volgari attenzioni sessuali.
La musica dei Nirvana fu spesso definita un mix perfetto tra la melodia dei Beatles e il punk dei Sex Pistols. Definizione che calza alla perfezione per Nevermind, molto meno su In Utero dove la componente rock distorta è più massiccia e la semplicità si mescola a un'introspezione agonizzante che avrebbe avuto il suo apice funereo nel successivo concerto live Unplugged, rivelando al mondo che cosa i Nirvana fossero capaci di fare in un set acustico. In Utero è l'ultimo grido di un Cobain verso un mondo la cui luce ormai si stava affievolendo. Canzoni come Milk it, Scentless Apprentice, Very Ape e la già citata Radio Friendly Unit Shifter rivelano tutta la poetica musicale di un artista unico.
"I wish I was like you Easily amused... " intona Kurt in All Apologies [Vorrei essere come voi/ Che vi divertite con poco], l'essenziale dell'anima è a portata dei nostri sentimenti, tra rinuncia e fuoco. In Utero, più di tutto Kurt Cobain.
ANCORA SINCERAMENTE CONSCIO
annientamento originale
di parole consapevoli, sono ancora
scomposto
e poco incline a catturare il crepuscolo
… i colpi inferti del volgare strutturato
consumano l'implosione... non me ne starò
lontano ad accettare
immerso nella foce...
da dove è piovuta
tutta questa terra…
Non è mai stata
solo una stupida risata…
Non è mai stata
una lacrima a dover per forza
raccontare la storia
nessuna assuefazione
la violenza è adattamento della vita stessa
… la violenza è ancora
vogliono gli eroi?
qualcosa sarebbe dovuto cambiare
nel mondo
e non solo dentro di me...
le sagome del passato
hanno già finito la piroetta
e tutti sanno già
quale sarà la prossima ripetitiva
reincarnazione
che cosa credi sia successo
da quando mi sedetti lì sotto?
Leggende del rock, anime fragili cadute anzitempo. In questo dannato 5 aprile2022, Tears in Heaven (Eric Clapton) s'intinge della realtà più familiarmente straziante.
Per gli amanti del rock e in particolare del sound di Seattle, la data del 5 aprile è uno dei giorni più neri. Nel 1994 si suicidò il cantante-chitarrista dei Nirvana, Kurt Cobain. Pochi anni dopo (2001), fece la medesima fine Layne Staley, la sofferta voce degli Alice in Chains, e nel 2019, per una tragica conseguenza, perì anche Shawn Smith, cantante dei Brad. Da oggi e per sempre, per il sottoscritto questa data ha assunto un significato più doloroso che mai, e d'ora in avanti accompagnerà sempre la vita del mio cuore.
Non voglio aggiungere altro oltre alle parole, solo lasciarmi cullare dal balsamo sonoro-lenitivo di Eric Clapton e la sua toccante Tears in Heaven.
LO SPRINT VERSO IL CIELO
Tacciano le stelle,
si facciano pettinare i ruscelli sotterranei…
la terra è un saliscendi
di calcoli e pagine impigliate… dal
ponte di comando, non voglio più vivere
senza sentimenti
Perché avevi così dannatamente fretta?
... forse era passato troppo tempo
da quando incontrasti quell'uomo
l’ultima volta…
E io ti prometto
che quella prima donna
si sentirà sempre la persona più amata,
ma questo lo avevi già capito…
un giorno tornerò anche io,
un giorno racconterò
qualcosa più da vicino...
il blu del cielo
ci accompagnerà per molti
anni ancora… deve
ancora tutto (ri)cominciare...
quanto dovranno essere
sconfinate le mie carezze
perché il suo sorriso
sappia ancora illuminare
i nostri cuori? Lo so già da ora,
ci sarai anche tu...
…
Vedo ancora veleggiare
qualche bolla di saponetra ciottolose corsie di aquiloni... e da lassù
ho sempre guardato l’orizzonte… e non
c’era alba che le onde
non sapessero unire… aspetto di riprendere
il cammino, correndo a perdifiato
da laggiù... vedo già una rosellina
piantata dinnanzi alla nostra finestra,
il resto te lo racconteremo tutti noi,
in un battito e ogni nuovo domani...
(Venezia, 5-6 aprile 2022)
Rock, poesia e bagliori di un impensabile futuro. 25 anni fa i, il 12 novembre 1996 assistetti al mio primo concerto dei Pearl Jam, a Roma, per il tour del nuovo album, No Code.
Il rock autentico dei Pearl Jam, per la prima volta dal vivo! Questo è più di un ricordo. Ciò che sto scrivendo e leggerete, è molto di più di un reportage musicale. Qui c'è l'essenza di ciò che è stata la mia vita (e in parte lo è ancora). In questo articolo c'è l'anima vulnerabile di Luca Ferrari. Quel viaggio iniziò insieme alla mia inseparabile agenda e le parole sputate dentro, on the road. Proseguì sulle rotaie tra cassette e sigarette. Si affacciò nell'attesa di ore e ore fuori dai cancelli. Infine arrivarono loro! Infine arrivò il momento della grande musica on stage. Fresco dei miei fragili e sfiancanti vent'anni appena compiuti, il 12 novembre 1996 andai al Palaeur di Roma a vedere per la prima volta i Pearl Jam dal vivo.
E mo' come comincio? Come si fa scrivere il ricordo di un evento di una tale portata emotiva? Come si fa a tramandarlo senza rischiare di deragliare di brutto? Io ci provo. Ci provo, per me, e per chi avrà la voglia (e la pazienza) di leggerlo fino all'ultima riga. Sarà un viaggio autentico e sfibrante. Conteso da traumi adolescenziali e scritte rabbio-riottose protese verso un insperato futuro, il 12 novembre 1996 andai a Roma per assistere al mio primo concerto dei Pearl Jam. Esattamente venticinque anni fa, all'ora esatta in cui è stato pubblicato questo lungo articolo di memorie umano-musicali, mi trovavo già davanti ai cancelli del Palaeur. Un'attesa lunghissima per vedere una band che da allora non ha più smesso di accompagnare la mia esistenza.
Faccio una doverosa premessa. All'epoca, così come avrei fatto nei successivi anni fino al 2004 circa, avevo sempre con me un'agenda (diary), dove annotavo pensieri, frammenti di poesie, tutto quello che mi frullasse nella mente. Una sorta di social network privato, con la differenza che mai e poi mai lo avrei mai fatto leggere ad alcuna/o, se non in rare e privilegiate occasioni. L'agenda che in quel momento stavo scrivendo, venne ovviamente con me. Impossibile pensare di vivere una simile esperienza senza una base di atterraggio per i miei vorticosi pensieri. Preciso questo perché alcuni dettagli ve li narrerò proprio sulla base dell'inchiostro sgorgato dentro quello scrigno, ancora gelosamente conservato. No Code era il mio album. Per certi versi, più di tutti. Ten e Vs li avevo "digeriti" insieme. Vitalogy fu il primo disco dei Pearl Jam che comprai non appena uscì in una gelida e solitaria serata d'inverno (22 dicembre 1994), nella più autentica e sofferente mutazione umana-emotiva. Vitalogy definì il mio DNA interiore, spalancando le porte di un legame immortale con la band di Seattle, il tutto mentre la poetica tormentata di Kurt Cobain bruciava/brillava/stava esplodendo dentro di me. No Code uscì a fine agosto 1996, in un altro momento cruciale della mia vita. Fu l'album dell'ispirazione "NeilYounghesca". Fu l'album col quale ruppi definitivamente col passato, scegliendo l'ignoto. Fu l'album che mi accompagnò in una lotta furiosa e senza sosta tra demoni interiori e incessanti lacrime come ponte levatoio verso le verità che dovevo trovare e comprendere.
Prima di quel momento, a parte i video, una sola volta avevo visto i Pearl Jam in diretta. Dal vivo, alla cerimonia di premiazione dei Grammy Awards '96, dove si divisero (nella mia anima) con la dolcezza spendente di Mariah Carey. Le notizie all'epoca si leggevano solo sulle riviste musicali, o se si era davvero fortunati, beccando qualche servizio su MTV. Così, quando li vidi sul piccolo schermo, non potevo sapere che di lì a qualche mese me li sarei trovati davanti. Li vidi dal vivo davanti al mio piccolo schermo e rimasi colpito dalla loro atipica autenticità, ma allo stesso tempo mi confermarono tutto quello che avevo letto e immaginato. Un qualcosa che avrei vissuto in modo ancor più ravvicinato e intenso, parecchi anni dopo, quando da giornalista intervistai i Mudhoney.
Arrivò il giorno della partenza. Pur avendo due t-shirt dei Pearl Jam comprate nei mercatini di Bologna e del Lido di Venezia, al concerto decisi che avrei indossato ben altro. Dentro l'arena avrei sfoggiato una maglietta bianca a maniche corte con una foto gigante di Kurt Cobain e la scritta sotto: 1967-1994: The End of Rock. La scelta non fu casuale. Non solo rappresentava il mio fortissimo legame con il cantante dei Nirvana, ma quell'indumento veniva dagli Stati Uniti, comprata da uno dei rarissimi ex compagni di scuola che potevo chiamare amico, e che me la portò dal viaggio post Maturità da New York. Io al contrario non feci nulla. Pur superata la prova finale, non avevo nulla da festeggiare.
Il viaggio in treno in Intercity da Venezia a Roma, 6 ore circa, fu un continuo e incessante ascoltare canzoni, partendo com'era mia abitudine dall'emblematica Train of Consequences dei Megadeth, e via via restando sui binari dell'heavy metal, in particolare, con profonde incursioni nella poetica di New Adventures in Hi-Fi (1996), capolavoro degli R.E.M. uscito appena due mesi prima. E i Pearl Jam? Niente? Quando vado a un concerto ho sempre sentito naturale la necessità di ascoltare poco la band in oggetto, e naturalmente a livelli disumani dopo se il concerto si sia dimostrsto all'altezza. Il live romano dei Pearl Jam fu l'apoteosi di questa dinamica.
Passata la notte da parenti romani, mi presentai ai cancelli prestissimo, quando l'orologio non segnava neanche le otto del mattino, con scorte alimentari ridotte al minimo (beata folle gioventù), trovando subito un gruppetto di persone ai quali unirmi. Molto introverso, lentamente mi feci trascinare dal contesto. Distesi tutti per terra, in particolare strinsi amicizia con un ragazzo di San Marino col quale provammo a giocare/scommettere su cosa i Pearl Jam avrebbero scelto per aprire lo show. Per la cronaca sbagliai di pochissimo. Dissi Last Exit (Vitalogy), che la band eseguirà per seconda. Nell'attesa, riuscii perfino a rivedere mia cugina di secondo grado, giunta sul posto appositamente per salutarmi, e trovandomi, dopo un bel po' che non ci si vedeva, in totale mutazione "capellona".
Le ore passavano e la massa si fece sempre più massiccia. Il sole intanto picchiava duro e la mia testa, dopo ore e ore, iniziò a vacillare. Venni lentamente risucchiato dalla folla, perdendo davvero colpi, e a un certo punto temetti per il peggio. Perse le prime file, riuscii a entrare ma la situazione sembrò davvero compromessa. Il mal di testa era talmente forte che non riuscii neanche a vedere la band di spalla, i Fastbacks, facendo su e giù in bagno a lanciarmi secchiate d'acqua gelida per ammorbidirmi il cranio. Un dettaglio di nota. Una volta entrato, fui invitato (come tutti) a lasciare la mia borsa a tracolla con dentro anche la mia preziosa agenda, in una specie di magazzino aperto.
Finalmente arrivò il momento tanto atteso. Trovai posto nell'ampia platea vicino a un gruppetto di ragazze poco più giovani di me e con cui ogni tanto condivisi qualche emozione sonora. Il concerto iniziò e... e fu uno shock! La prima canzone, Release, non la seppi riconoscere. Avevo atteso quel momento da mesi e adesso non avevo nessuna parola nella testa da poter cantare. Lo ammetto, ci rimasi parecchio male, poi per fortuna arrivò il turno di Last Exit e iniziai a sciogliermi... e a pogare. Il concerto dei Pearl Jam per me iniziò in quel momento.
Ricordo ancora, e bene, la mancanza di fiato dopo questo terzetto di capolavori suonato senza pause dalla band, e la fiammella dell'accendino (viola) tenuta per tutta l'esecuzione di Immortality, il commiato musicale di Eddie Vedder a Kurt Cobain sublimato nella tragica frase finale "Some die just to live". E poi lui, il gran finale di Rockin in a Free Wolrd di Neil Young. Esplosiva. Infinita. Travolgente. Strepitosa. Quasi non ci potevo credere di quello che avevo appena assistito. Dentro di me ripetevo: "Ancora non ci credo di essere qui, a Roma, in mezzo a migliaia fan dei Pearl Jam"... di cui al contrario a Venezia, non avevo nessuno con cui condividere la passione per questa band.
Ora un po' di cronaca da tramandare ai posteri. Attingendo a pearljamonline.it, il sito italiano dedicato ai Peal Jam attivo dal 2001, recupero l'esatta scaletta del concerto: Release, Last Exit, Animal, Hail Hail, Dissident, In My Tree, Corduroy, Better Man, Not for You, Even Flow, Daughter/Androgynous Mind (Sonic Youth)/W.M.A., Jeremy, Hunger Strike (Temple of the Dog), Black/We Belong Together (Rickie Lee Jones), State of Love and Trust, Sometimes, Rearviewmirror, Immortality, Lukin, Alive. Encore: Who You Are, Once, Present Tense, Smile, Rocking in the Free World (Neil Young).
Torniamo al 1996. La band si congeda. Recupero la mia sacca e me ne vado. Quando sono già sulla porta, mi accorgo di un errore atroce. Ho preso quella sbagliata. Torno indietro fulmineo e per fortuna la trovo ancora lì. Non voglio neanche pensare all'idea che l'avessi persa per sempre. Ok, adesso può cominciare la strada del ritorno. E adesso che si fa? Esco gonfio di ogni possibile sentimento ma di mezzi, neanche l'ombra. Dopo almeno un'ora di attesa, arriva un autobus su cui ci fiondiamo in massa, riuscendo ad arrivare alla stazione Termini, all'epoca chiusa. Con i pochi soldi rimasti, recupero un taxi andando fino alla Tiburtina, e lì trovo un treno che mi porterà a Milano, il tutto debitamente annotato sull'agenda (vedi foto).
Il problema adesso sarà stare sveglio per scendere a Bologna. Certo, potevo prendermela comoda e andare a fare la nanna nelle sicure pareti parentali, ma la cosa non mi è mai passata per la mente. Fin da principio avevo deciso che sarei tornato subito dopo la fine del concerto, per viverlo dentro e fuori la pelle e l'anima. È dura. Sonno e stanchezza mi avvolgono, ma grazie al mio inseparabile walkman che ora pompa PJ a getto continuo, riesco nell'impresa. Sono le 4 del mattino quando smonto nel capoluogo emiliano e un'ora più tardi, un Interregionale mi cullerà fino Venezia. Dormire? Non ci penso proprio! È l'ultima parte del viaggio (credo, ndr). Fermata dopo fermata, mentre i pendolari salgono a bordo, nel pieno della mia ribelle adrenalina, vedo il sole sorgere. Mi sento il cuore pieno di poesia e magia.
Ho solo vent'anni. Ho appena visto suonare i Pearl Jam e la consapevolezza di un'esistenza in totale caduta libera. Quello fu il viaggio. Il mio viaggio. Il mio concerto. Da solo in una metropoli. Quello che seguirà (appena) negli immediati due anni successivi, sarà un lungo ed estenuante assolo senza fine, in rotta/scontro verso nuovi significati del dolore nell'anima e nel fisico. Senza saperlo però, un germoglio del futuro più incredibile aveva appena iniziato il suo ciclo vitale. Quella t-shirt nera con il disegno del compact disc di No Code, comprata e indossata appena arrivato fuori dal Palaeur, un giorno chiuderà il cerchio di una delle più sincere e autentiche storie di amicizia. Adesso però, è ora di scrivere l'ultimo paragrafo. Un finale inaspettato e per questo, veracemente grandioso.
Sbarco distrutto alla stazione di Venezia Santa Lucia con la musica dei Pearl Jam che ormai è parte integrante di ogni mia molecola. Sono sudato, sfiancato ma pieno di energia rock. Non ho nessuna intenzione di tornare a casa e chiudermi in stanza. Da una cabina del telefono chiamo una mia carissima amica. Lei sta frequentando l'ultimo anno delle Scuole Superiori e sta per andare a scuola. Le vado incontro per berci un caffè insieme e darle un souvenir del concerto. Insieme a lei, c'è una delle sue migliori amiche che ho conosciuto qualche mese prima e con cui ho subito legato. Insieme a quest'ultima, 18 anni dopo, assisterò a un concerto dei Pearl Jam, a Trieste (2014), con i rispettivi compagni di vita. Prestatale dal sottoscritto, lei indosserà proprio quella maglia nera che comprai al concerto dei Pearl Jam il 12 novembre 1996, a Roma. E come faccio a non essere sentimentale adesso?!?...
IL BATTITO IMMORTALE DEL PRESENTE Non interrompermi,
non ho dormito neanche stanotte…
Mi sono scontrato
con il bagliore delle onde lunari… ... è stata una nuova sensazione
Ho paura che non sarò
più in grado d'imparare altro
per molto tempo...e non sarò
più in grado di tornare
indietro... Puoi scoprire
quanto tempo passerà prima che inizi
a capirlo insieme a te?...
Storia di recenti incursioni,
parole moderne, strade
tardive... Non sono certo
tu sia riuscita a vedere
dove mi sia affacciato... Non
mi sono distratto,
la tua calligrafia è ancora fresca...
Ho sempre guardato il sole
all’indietro perché un giorno pensavo
avrei trovato la mia strada… Poi
decisi di prendere sul serio
le ombre, e il sangue
si fece lacrime gravemente gentili
Prigioni cadute... Si sbriciolano
i fucili... Conchiglie come mulini
in una scia di fuoco
a lume di cammino… Storia di calpestio
di rugiada e sorrisi appena (s)conosciuti...
Consapevolezza e paracadute...
Ogni giuramento senza graffi
è un puzzle di recinzioni in meno
nella mia vita...
Avevo già rinunciato,
volevo rinunciare ancora…
… Nel nome dei sogni che non sapevo
più fare, mi strappai le braccia
per imparare a camminare... ho intinto
lo sguardo affogando
dentro la mia indifendibile innocenza
fino a barcollare
in un cerchio di vertici cognitivi,
equivalenti e interscambiabili... Erano i simboli,
erano nuvole, noi, esseri umani...
Il codice... La visione di un respiro... la mia
strada più gloriosamente senza fine...
…
La marea arrivò fin oltre la mia gola...
Ho trovato la forza
di proseguire... C'è qualcosa
che volevo chiedere
alle nostre mani... Credo a questo finale
perché siamo ancora così vicini
(Venezia, 12 novembre 2021)
I Pearl Jam dal vivo a Roma nel 1996
Un giovanissimo Luca Ferrari (settembre '96) e l'agenda con cui andai a Roma