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domenica 25 giugno 2023

Temple of the Dog – Say Hello to Seattle

La città di Seattle tra il booklet e il cd dei Temple of The Dog © Luca Ferrari

Il 25 giugno 2012 ero in partenza per Seattle. Un viaggio sognato da anni, e con due acquisti da fare: i cd dei Temple of the Dog e dei Mother Love Bone. Hello, Seattle!

di Luca Ferrari

Ci sono storie che non finiscono mai. Ci sono storie nate per bruciarsi e risplendere nel momento che diventano reali. La mia storia con la città e il sound di Seattle la potrei riassumere così. Ho aspettato a lungo ma alla fine tutto divenne realtà e nel modo più incredibile. Tanti anni or sono avevo fatto una promessa. Non solo avrei raggiunto la città epicentro delle band più significative per la mia vita, ma solo in quel viaggio mi sarei finalmente comprato due cd particolari: il solo e unico album dei Mother Love Bone, Apple (1990), e l'omonimo (1991) dei Temple of the Dog, il side project firmato dai neonati Pearl Jam insieme ai Soundgarden, in memoria del compianto Andy Wood (1966-1990), carismatico leader dei MLB per l'appunto.

10 canzoni, un album intero scritto per un amico dai suoi amici. Si comincia con l'eloquente Say Hello 2 Heaven (6:22). Si prosegue con la lunga e ipnotica Reach Down (11:11) dove Chris Cornell, se mai ce ne fosse ancora bisogno, fa sfoggio delle sue incredibili doti canore. Si raggiunge l'apoteosi con Hunger Strike (4:03), l'unica canzone cantata a due voci Cornell/Vedder. Si avanza con un il rock possente di Pushin' Forward Back (3:44) e via via le altre tra melodie, rock e tanta poesia umana:
Call Me a Dog (5:02), Times of Trouble (5:41), Wooden Jesus (4:09), Your Saviour (4:02), Four Walled World (6:53) e chiude All Night Thing (3:52).

In quel viaggio però, la musica fu solo sussurrata. In realtà, feci molto di più e meglio, incarnando negli amici raggiunti in terra americana quel mondo di semplicità così poeticamente scandito dai versi di quelle band. Il viaggio dei Temple of The Dog iniziò su di una cassetta duplicata da una conoscenza capellona. I nomi delle canzoni scritte a mano e al massimo l'immaginazione nel sognare quella città dominata dallo Space Needle. Quando comprai il disco, ricordo molto bene l'emozione. Una scarica così potente da farmi pensare a iniziare un'avventura musicale di scrittura proprio lì, a Seattle. Un viaggio, quello nel Nordovest americano, che mi portò anche ad Aberdeen, città natale di Kurt Cobain. Ciao, è il saluto più semplice che ci sia. Che si tratti di un amico o del paradiso, avremo sicuramente una strada da proseguire insieme. Hello, Seattle. Oggi e per sempre.

PARCO GIOCHI AL GRIGIO DI SOLE

nel cielo, oltre qualche zampillo

inesploso... è una lettera,

doveva essere una cerbottana

su cui non scrivo più…

oggi tra le strade

guardo nelle nuvole

sfogliando le tane salite

che ho baciato

attraverso e insieme a te

hai tempo

per sentirti meglio

nella tua vita?

hai tempo 

per aggiungere

un sogno

alla tua esistenza?

… i  tuoni non sono lontani

e la porta

è semplicemente aperta

rivedo già

i primi passi… confini

sbriciolati

e un corteo verdeggiante

… chi avrebbe voluto

andare fin laggiù

quando potevo aspettare

fino al giorno

del nostro primo incontro...

mi restano ancora

molte cose da dirti

… mi restano

ancora molte cose da dirvi

Veniamo tutti

da un’isola, poi a un certo istante,

la grazia 

ci farà incontrare ancora

per un nuovo interminabile

domani stellare (Venezia, 25 giugno 2023)


Temple of the Dog - Say Hello to Heaven

venerdì 12 novembre 2021

Pearl Jam, il battito immortale di No Code 1996

Il biglietto del concerto dei Pearl Jam © Luca Ferrari

Rock, poesia e bagliori di un impensabile futuro. 25 anni fa i, il 12 novembre 1996 assistetti al mio primo concerto dei Pearl Jam, a Roma, per il tour del nuovo album, No Code.

di Luca Ferrari

Il rock autentico dei Pearl Jam, per la prima volta dal vivo! Questo è più di un ricordo. Ciò che sto scrivendo e leggerete, è molto di più di un reportage musicale. Qui c'è l'essenza di ciò che è stata la mia vita (e in parte lo è ancora). In questo articolo c'è l'anima vulnerabile di Luca Ferrari. Quel viaggio iniziò insieme alla mia inseparabile agenda e le parole sputate dentro, on the road. Proseguì sulle rotaie tra cassette e sigarette. Si affacciò nell'attesa di ore e ore fuori dai cancelli. Infine arrivarono loro! Infine arrivò il momento della grande musica on stage. Fresco dei miei fragili e sfiancanti vent'anni appena compiuti, il 12 novembre 1996 andai al Palaeur di Roma a vedere per la prima volta i Pearl Jam dal vivo.

E mo' come comincio? Come si fa scrivere il ricordo di un evento di una tale portata emotiva? Come si fa a tramandarlo senza rischiare di deragliare di brutto? Io ci provo. Ci provo, per me, e per chi avrà la voglia (e la pazienza) di leggerlo fino all'ultima riga. Sarà un viaggio autentico e sfibrante. Conteso da traumi adolescenziali e scritte rabbio-riottose protese verso un insperato futuro, il 12 novembre 1996 andai a Roma per assistere al mio primo concerto dei Pearl Jam. Esattamente venticinque anni fa, all'ora esatta in cui è stato pubblicato questo lungo articolo di memorie umano-musicali, mi trovavo già davanti ai cancelli del Palaeur. Un'attesa lunghissima per vedere una band che da allora non ha più smesso di accompagnare la mia esistenza.

Faccio una doverosa premessa. All'epoca, così come avrei fatto nei successivi anni fino al 2004 circa, avevo sempre con me un'agenda (diary), dove annotavo pensieri, frammenti di poesie, tutto quello che mi frullasse nella mente. Una sorta di social network privato, con la differenza che mai e poi mai lo avrei mai fatto leggere ad alcuna/o, se non in rare e privilegiate occasioni. L'agenda che in quel momento stavo scrivendo, venne ovviamente con me. Impossibile pensare di vivere una simile esperienza senza una base di atterraggio per i miei vorticosi pensieri. Preciso questo perché alcuni dettagli ve li narrerò proprio sulla base dell'inchiostro sgorgato dentro quello scrigno, ancora gelosamente conservato.

No Code
 era il mio album. Per certi versi, più di tutti. Ten e Vs li avevo "digeriti" insieme. Vitalogy fu il primo disco dei Pearl Jam che comprai non appena uscì in una gelida e solitaria serata d'inverno (22 dicembre 1994), nella più autentica e sofferente mutazione umana-emotiva. Vitalogy definì il mio DNA interiore, spalancando le porte di un legame immortale con la band di Seattle, il tutto mentre la poetica tormentata di Kurt Cobain bruciava/brillava/stava esplodendo dentro di me. No Code uscì a fine agosto 1996, in un altro momento cruciale della mia vita. Fu l'album dell'ispirazione "NeilYounghesca". Fu l'album col quale ruppi definitivamente col passato, scegliendo l'ignoto. Fu l'album che mi accompagnò in una lotta furiosa e senza sosta tra demoni interiori e incessanti lacrime come ponte levatoio verso le verità che dovevo trovare e comprendere.

Prima di quel momento, a parte i video, una sola volta avevo visto i Pearl Jam in diretta. Dal vivo, alla cerimonia di premiazione dei Grammy Awards '96, dove si divisero (nella mia anima) con la dolcezza spendente di Mariah Carey. Le notizie all'epoca si leggevano solo sulle riviste musicali, o se si era davvero fortunati, beccando qualche servizio su MTV. Così, quando li vidi sul piccolo schermo, non potevo sapere che di lì a qualche mese me li sarei trovati davanti. Li vidi dal vivo davanti al mio piccolo schermo e rimasi colpito dalla loro atipica autenticità, ma allo stesso tempo mi confermarono tutto quello che avevo letto e immaginato. Un qualcosa che avrei vissuto in modo ancor più ravvicinato e intenso, parecchi anni dopo, quando da giornalista intervistai i Mudhoney.

Arrivò il giorno della partenza. Pur avendo due t-shirt dei Pearl Jam comprate nei mercatini di Bologna e del Lido di Venezia, al concerto decisi che avrei indossato ben altro. Dentro l'arena avrei sfoggiato una maglietta bianca a maniche corte con una foto gigante di Kurt Cobain e la scritta sotto: 1967-1994: The End of Rock. La scelta non fu casuale. Non solo rappresentava il mio fortissimo legame con il cantante dei Nirvana, ma quell'indumento veniva dagli Stati Uniti, comprata da uno dei rarissimi ex compagni di scuola che potevo chiamare amico, e che me la portò dal viaggio post Maturità da New York. Io al contrario non feci nulla. Pur superata la prova finale, non avevo nulla da festeggiare.

Il viaggio in treno in Intercity da Venezia a Roma, 6 ore circa, fu un continuo e incessante ascoltare canzoni, partendo com'era mia abitudine dall'emblematica Train of Consequences dei Megadeth, e via via restando sui binari dell'heavy metal, in particolare, con profonde incursioni nella poetica di New Adventures in Hi-Fi (1996), capolavoro degli R.E.M. uscito appena due mesi prima. E i Pearl Jam? Niente? Quando vado a un concerto ho sempre sentito naturale la necessità di ascoltare poco la band in oggetto, e naturalmente a livelli disumani dopo se il concerto si sia dimostrsto all'altezza. Il live romano dei Pearl Jam fu l'apoteosi di questa dinamica.

Dall'agenda, canzoni ascoltate nel viaggio Venezia-Roma © Luca Ferrari

Passata la notte da parenti romani, mi presentai ai cancelli prestissimo, quando l'orologio non segnava neanche le otto del mattino, con scorte alimentari ridotte al minimo (beata folle gioventù), trovando subito un gruppetto di persone ai quali unirmi. Molto introverso, lentamente mi feci trascinare dal contesto. Distesi tutti per terra, in particolare strinsi amicizia con un ragazzo di San Marino col quale provammo a giocare/scommettere su cosa i Pearl Jam avrebbero scelto per aprire lo show. Per la cronaca sbagliai di pochissimo. Dissi Last Exit (Vitalogy), che la band eseguirà per seconda. Nell'attesa, riuscii perfino a rivedere mia cugina di secondo grado, giunta sul posto appositamente per salutarmi, e trovandomi, dopo un bel po' che non ci si vedeva, in totale mutazione "capellona".

Le ore passavano e la massa si fece sempre più massiccia. Il sole intanto picchiava duro e la mia testa, dopo ore e ore, iniziò a vacillare. Venni lentamente risucchiato dalla folla, perdendo davvero colpi, e a un certo punto temetti per il peggio. Perse le prime file, riuscii a entrare ma la situazione sembrò davvero compromessa. Il mal di testa era talmente forte che non riuscii neanche a vedere la band di spalla, i Fastbacks, facendo su e giù in bagno a lanciarmi secchiate d'acqua gelida per ammorbidirmi il cranio. Un dettaglio di nota. Una volta entrato, fui invitato (come tutti) a lasciare la mia borsa a tracolla con dentro anche la mia preziosa agenda, in una specie di magazzino aperto.

Finalmente arrivò il momento tanto atteso. Trovai posto nell'ampia platea vicino a un gruppetto di ragazze poco più giovani di me e con cui ogni tanto condivisi qualche emozione sonora. Il concerto iniziò e... e fu uno shock! La prima canzone, Release, non la seppi riconoscere. Avevo atteso quel momento da mesi e adesso non avevo nessuna parola nella testa da poter cantare. Lo ammetto, ci rimasi parecchio male, poi per fortuna arrivò il turno di Last Exit e iniziai a sciogliermi... e a pogare. Il concerto dei Pearl Jam per  me iniziò in quel momento.

Sono passati 25 anni da quell'istante e se credete che mi possa ricordare lo show canzone per canzone, siete degli illusi, e io non dico le bugie. Guardando la scaletta, mi accorgo di uno scherzo della memoria. Ho sempre raccontato che i PJ suonarono di fila Jeremy (la canzone cui sono più legato in assoluto insieme a Immortality), Dissident e Black. Non fu così. La seconda venne suonata in un altro momento, e tra i due capolavori di Ten, ci misero dentro Hunger Strike dei Temple of the Dog che in tutta onestà, proprio non ricordo nonostante la conoscessi molto bene. Erano già passati mesi quando su un pezzo di carta scrissi/giurai che l'album omonimo dei Temple od the Dog per l'appunto, lo avrei comperato solo quando sarei andato a Seattle. Una promessa che avrei mantenuto 16 anni dopo al Silver Platters, comprando anche Apple dei Mother Love Bone.

Ricordo ancora, e bene, la mancanza di fiato dopo questo terzetto di capolavori suonato senza pause dalla band, e la fiammella dell'accendino (viola) tenuta per tutta l'esecuzione di Immortality, il commiato musicale di Eddie Vedder a Kurt Cobain sublimato nella tragica frase finale "Some die just to live". E poi lui, il gran finale di Rockin in a Free Wolrd di Neil Young. Esplosiva. Infinita. Travolgente. Strepitosa. Quasi non ci potevo credere di quello che avevo appena assistito. Dentro di me ripetevo: "Ancora non ci credo di essere qui, a Roma, in mezzo a migliaia fan dei Pearl Jam"... di cui al contrario a Venezia, non avevo nessuno con cui condividere la passione per questa band.

Ora un po' di cronaca da tramandare ai posteri. Attingendo a pearljamonline.it, il sito italiano dedicato ai Peal Jam attivo dal 2001, recupero l'esatta scaletta del concerto: Release, Last Exit, Animal, Hail Hail, Dissident, In My Tree, Corduroy, Better Man, Not for You, Even Flow, Daughter/Androgynous Mind (Sonic Youth)/W.M.A., Jeremy, Hunger Strike (Temple of the Dog), Black/We Belong Together (Rickie Lee Jones), State of Love and Trust, Sometimes, Rearviewmirror, Immortality, Lukin, Alive. Encore: Who You Are, Once, Present Tense, Smile, Rocking in the Free World (Neil Young).

Torniamo al 1996. La band si congeda. Recupero la mia sacca e me ne vado. Quando sono già sulla porta, mi accorgo di un errore atroce. Ho preso quella sbagliata. Torno indietro fulmineo e per fortuna la trovo ancora lì. Non voglio neanche pensare all'idea che l'avessi persa per sempre. Ok, adesso può cominciare la strada del ritorno. E adesso che si fa? Esco gonfio di ogni possibile sentimento ma di mezzi, neanche l'ombra. Dopo almeno un'ora di attesa, arriva un autobus su cui ci fiondiamo in massa, riuscendo ad arrivare alla stazione Termini, all'epoca chiusa. Con i pochi soldi rimasti, recupero un taxi andando fino alla Tiburtina, e lì trovo un treno che mi porterà a Milano, il tutto debitamente annotato sull'agenda (vedi foto).

Il problema adesso sarà stare sveglio per scendere a Bologna. Certo, potevo prendermela comoda e andare a fare la nanna nelle sicure pareti parentali, ma la cosa non mi è mai passata per la mente. Fin da principio avevo deciso che sarei tornato subito dopo la fine del concerto, per viverlo dentro e fuori la pelle e l'anima. È dura. Sonno e stanchezza mi avvolgono, ma grazie al mio inseparabile walkman che ora pompa PJ a getto continuo, riesco nell'impresa. Sono le 4 del mattino quando smonto nel capoluogo emiliano e un'ora più tardi, un Interregionale mi cullerà fino Venezia. Dormire? Non ci penso proprio! È l'ultima parte del viaggio (credo, ndr). Fermata dopo fermata, mentre i pendolari salgono a bordo, nel pieno della mia ribelle adrenalina, vedo il sole sorgere. Mi sento il cuore pieno di poesia e magia.

Ho solo vent'anni. Ho appena visto suonare i Pearl Jam e la consapevolezza di un'esistenza in totale caduta libera. Quello fu il viaggio. Il mio viaggio. Il mio concerto. Da solo in una metropoli. Quello che seguirà (appena) negli immediati due anni successivi, sarà un lungo ed estenuante assolo senza fine, in rotta/scontro verso nuovi significati del dolore nell'anima e nel fisico. Senza saperlo però, un germoglio del futuro più incredibile aveva appena iniziato il suo ciclo vitale. Quella t-shirt nera con il disegno del compact disc di No Code, comprata e indossata appena arrivato fuori dal Palaeur, un giorno chiuderà il cerchio di una delle più sincere e autentiche storie di amicizia. Adesso però, è ora di scrivere l'ultimo paragrafo. Un finale inaspettato e per questo, veracemente grandioso. 

Sbarco distrutto alla stazione di Venezia Santa Lucia con la musica dei Pearl Jam che ormai è parte integrante di ogni mia molecola. Sono sudato, sfiancato ma pieno di energia rock. Non ho nessuna intenzione di tornare a casa e chiudermi in stanza. Da una cabina del telefono chiamo una mia carissima amica. Lei sta frequentando l'ultimo anno delle Scuole Superiori e sta per andare a scuola. Le vado incontro per berci un caffè insieme e darle un souvenir del concerto. Insieme a lei, c'è una delle sue migliori amiche che ho conosciuto qualche mese prima e con cui ho subito legato. Insieme a quest'ultima, 18 anni dopo, assisterò a un concerto dei Pearl Jam, a Trieste (2014), con i rispettivi compagni di vita. Prestatale dal sottoscritto, lei indosserà proprio quella maglia nera che comprai al concerto dei Pearl Jam il 12 novembre 1996, a Roma. E come faccio a non essere sentimentale adesso?!?...

IL BATTITO IMMORTALE DEL PRESENTE

Non interrompermi,

non ho dormito neanche stanotte…

Mi sono scontrato

con il bagliore delle onde lunari…
... è stata una nuova sensazione

Ho paura che non sarò

più in grado d'imparare altro

per molto tempo...e non sarò

più in grado di tornare

indietro... Puoi scoprire

quanto tempo passerà prima che inizi

a capirlo insieme a te?... Storia di recenti incursioni,

parole moderne, strade

tardive... Non sono certo

tu sia riuscita a vedere

dove mi sia affacciato... Non

mi sono distratto,

la tua calligrafia è ancora fresca...

Ho sempre guardato il sole 

all’indietro perché un giorno pensavo 

avrei trovato la mia strada… Poi

decisi di prendere sul serio

le ombre, e il sangue 

si fece lacrime gravemente gentili Prigioni cadute... Si sbriciolano

i fucili... Conchiglie come mulini

in una scia di fuoco

a lume di cammino… Storia di calpestio

di rugiada e sorrisi appena (s)conosciuti... Consapevolezza e paracadute... Ogni giuramento senza graffi

è un puzzle di recinzioni in meno

nella mia vita...

Avevo già rinunciato,

volevo rinunciare ancora… 

… Nel nome dei sogni che non sapevo

più fare, mi strappai le braccia

per imparare a camminare... ho intinto

lo sguardo affogando

dentro la mia indifendibile innocenza

fino a barcollare

in un cerchio di vertici cognitivi,

equivalenti e interscambiabili... Erano i simboli,

erano nuvole, noi, esseri umani... Il codice... La visione di un respiro... la mia

strada più gloriosamente senza fine...

… La marea arrivò fin oltre la mia gola... Ho trovato la forza

di proseguire... C'è qualcosa

che volevo chiedere

alle nostre mani... Credo a questo finale

perché siamo ancora così vicini

(Venezia, 12 novembre 2021)

I Pearl Jam dal vivo a Roma nel 1996

Un giovanissimo Luca Ferrari (settembre '96) e l'agenda con cui andai a Roma
Il biglietto del treno per Roma (conservato nell'agenda) © Luca Ferrari
L'adesivo dei PJ comprato al concerto e la testimonianza scritta sull'agenda
mentre ero in attesa del treno, al rientro © Luca Ferrari
Il poster del tour di No Code, e la t-shirt comprata al concerto del 1996 © Luca Ferrari
Dal 1996 al 2014, nel nome dell'amicizia e dei Pearl Jam

martedì 1 ottobre 2019

Mother Love Bone, I give to you my heartshine

Mother Love Bone © Metallus.it
"Le lacrime sono dei deboli. Bisogna ostentare la forza". Ecco lo schifo di mondo dove facciamo crescere i nostri figli. I give to you my heartshine, piccola creatura. Per info, ascoltare i Mother Love Bone.

di Luca Ferrari

Davvero un posto strano il mondo. In rete sembriamo tutti delle creature impegnate e preoccupate anche per le sorti di un leprotto intrappolato nella neve. Quando però si tratta della vita reale, subito a mettere una benda se le emozioni diventano troppo invadenti e soprattutto, visibili. Val bene i sentimenti, ma che non diano una immagine di poca forza perché il mondo ha solo bisogno di forza e ostentazione. E allora avanti, fatemi vedere chi siete. Quando tornerete a casa e saprete comunicare solo con le applicazioni, vi sentirete davvero realizzati?

Non era nei miei programmi scrivere una simile poesia quest'oggi, poi però accadono cose che ti stordiscono. Senti frasi e inizi a dubitare che chi ha in mano il futuro delle prossime generazioni, li sta solo preparando a un mondo pragmatico senza inondare i loro piccolissimi cuori di forza e amore per le proprie emozioni, anche quelle più struggenti. Anche quelle capaci di ferirti e farti crescere. "Noi non siamo altri che i nostri sentimenti", ci ha tramandato Neil Young. Oggi riparto da lui, traendo lacrime d'amore dal rock dei Mother Love Bone e la cavalcata di Heartshine, qui interpretata dai Temple of The Dog e la voce scomparsa di Chris Cornell.

Grazie per l'ispirazione, fraterno Andy Wood... Yeah, yeah, yeah, yeah give to you my heartshine!


QUELL’IRRIDUCBILE SPLENDORE DEL TUO CUORE


Come procede il mondo,
avete commentato abbastanza per oggi
e le finte lacrime
che state versando,
non sono le stesse che state negando
ai vostri figli di mostrare?

Piccola creatura, devi essere forte
e non mostrare mai tu chi sia… Piccola
creatura, io ti ho messo
al mondo
e non mi devi far sfigurare…

Quando sei pronto
a essere forte per amare?
Quanto sei deciso
a rivelare il tuo cuore?
… Chiunque incontrerai
sulla tua strada
che metta in ridicolo
le tue lacrime, tu
lo saprai affrontare davvero
fino al giorno dopo e oltre

Volete le emozioni
e poi siete le prime
a spingerli negli angoli
quando la luce
diventa troppo amorevole

Vi siete già fatti vedere dal mondo
mentre esprimete cordoglio
per l’estinzione di chi ha già smesso
di sopravvivere?
Qui siamo ancora in tanti
a essere a un passo dalla fine,
e allora perché nessuno
ci sta rivolgendo la parola?
Lo sgorgare delle nostre emozioni
è troppo
per i loro apparati… Tracceremo
un segmento anche per questo,
e poi una retta… Il tuo cuore, 
continuerà a splendere
(Venezia, 1 Ottobre ’19) 

Heartshine (live), cover by Temple of the Dog

martedì 25 giugno 2019

Mother Love Bone, le star(dog) di Seattle

Mother Love Bone (da sx): B. Fairweather, G. Gilmore, A. Wood, J. Ament e S. Gossard © godssard
Prima di Mudhoney, Nirvana e Pearl Jam, la Seattle del rock è soprattutto Mother Love Bone. Sette anni fa io ci stavo andando e fu così che iniziai ad accordare nuovi sogni condivisi.

di Luca Ferrari

Sette anni esatti fa, il 25 giugno, a quest'ora del giorno mi stavo imbarcando all'aeroporto Marco Polo di Venezia destinazione Seattle. Un viaggio sognato da una via intera. Un viaggio che come ho sempre sottolineato fin dal mio ritorno, non è stato lontanamente ciò che avevo immaginato. Un viaggio che è stato il trionfo dei rapporti umani sulla solitudine del passato. Un viaggio che ha concluso uno di quei cerchi della vita lasciando finestre spalancate, portoni e ancor di più, mani e braccia unite. Io sono andato a Seattle con un'idea e da lì sono tornato con nuove convinzioni e la sensazione (certezza) che la vita, talvolta, sappia essere più profonda delle ombre.

Il primo pezzo di Live on Two Hands è una foto scattata proprio in quel viaggio, a Seattle. Il secondo, sempre da lì, ma questa volta è più un articolo dedicato a "tutti loro". Dedicato a tutte quelle band formatesi nel Nordovest americano che hanno alimentato la mia esistenza culturale. In quel viaggio verso Seattle c'erano tanti demoni che cercavano la propria collocazione. In quel viaggio misi insieme pezzi di mondi che molti anni prima nemmeno immaginavo avrebbero potuto coesistere. In quel viaggio a Seattle, il sangue sgorgato da un passato ancora oggi difficile da accettare, trovò nella felicità della condivisione un nuovo linguaggio e un'indelebile traccia per il domani.

In principio dunque ci fu la musica, e per il sottoscritto nessuno come i Mother Love Bone ha da sempre rappresentato al meglio la città di Seattle, e non a caso lo sfondo di questo blog è dedicato a loro. Più di Mudhoney, Nirvana e Pearl Jam. Forse perché c'erano loro prima di tutti, a eccezione di Mark Arm & soci. E non è un caso che quando stavo tornando col traghetto a Seattle dopo un giro in mezzo alla natura, passando anche per quell'Aberdeen natia di Kurt Cobain, lì, nelle cuffie stessi ascoltando proprio loro. Heartshine, Man of Golden WordsStargazerCrown of Thorns, la decadente-riottosa Gentle Groove e ovviamente lei, Stardog Champion, la prima canzone dei Mother Love Bone che ascoltai.

E non fu un caso che i miei primi e intensi sussulti nel documentario Pearl Jam Twenty (2012, di Cameron Crowe) li ebbi quando partirono le note di This Is Shangrila, facendo apparire la smaliziata "star" Andy Wood e subito dopo il volto sorridente di uno Stone Gossard ancora dannatamente ragazzino. Ecco, quelli erano i Mother Love Bone insieme agli altri tre membri del gruppo: il bassista Jeff Ament, il chitarrista solista Bruce Fairweather e il batterista Greg Gilmore. Quella era la fiaba dolce-metropolitana di uno spiritato gruppo di artisti che voleva lasciare un segno nel mondo e ci riuscì con la propria musica, un tragico destino e un'eredità umana ancora viva nella "smeraldina" semplicità della loro città natale.

Stardog Champion è un sali e scendi di rock allo stato brado, impreziosito da un assolo di chitarre dove il rock sembra davvero risorgere in una nuove veste ruvido-melodica dopo i lustrini e il machismo esasperato degli anni Ottanta. I Mother Love Bone però avevano molte affinità col glam rock, anche se più nell'aspetto che non nel sound, decisamente più figlio dei Led Zeppelin e di sicuro più imparentato con i futuri album dei Soundgarden che non con gli accordi di Poison o Twisted Sisters. Stardog Champion non è solo una canzone, è l'illusione diventata realtà. Riemersa dalle paludi senza ritorno, e pronta a essere intonata verso ogni spazzo di fosco azzurro.

Adesso non starò qui a raccontarvi la storia di questa band o del tragico epilogo del suo talentuoso cantante (1966-1990). Sono qui per condividere una storia. La mia storia insieme ai Mother Love Bone. Quello che mi hanno ispirato. Quello che abbiamo provato insieme . E quando, all'apice di una caduta senza fine, vedevo quei ragazzini danzare con sullo sfondo l'oceano e lo Space Needle di Seattle verso le battute finali del videoclip di Stardog Champion e l'inizio del coro fanciullesco, le ferite si squarciavano convinte che mai ci sarei arrivato. Allo stesso tempo, però qualcosa non smise mai di lottare furiosamente per non dissolversi. Quel qualcosa che sopravvisse fino a portarmi in una città i cui musicisti hanno segnato per sempre la storia della mia vita.


L’ALBA È PIÙ VICINA AL SOLE

Laica preghiera di cristallo, non è solo

una questione di sentimenti
respinti... Questo sono sempre stato io 
e non volevo che sprofondare 
diversamente... A chi tocca 
dare la propria ingloriosa versione? Tocca 
a te nasconderti
senza poter alzare la mano per primo...  

Nei lacci nascosti 
dentro i pugni abbandonati
non ci sono mai state mele 
capaci di indurmi a costruire una strada
di casa... Chi di loro si sarebbe immaginato
un simile sforzo? 
Mi riprendo gli spiriti 
lasciati inorriditi 
tra quadratini senza profezie 
né distorsioni di rappresaglia

Ho pensato di dire 
che anche i desideri abbiano la loro storia
di persecuzioni e tavole rotonde,
e io adesso lo sto sostenendo.
Sento che potrei avere qualche nuovo aneddoto 
da tramandare... 

Non avrei mai voluto tornare, 
ma il mondo non è cosa per chi era abituato 
a vivere senza domani... O almeno
questo era il mio pensiero...  

Torsoli riemersi  

dalle piogge primordiali... Oggi 
non edificherò consolazioni.
Aspetterò quelle antiche e solitarie luci 
del mattino andare oltre
il proprio oceano di tentacoli,
farò nuove amicizie 
e passerò un'intera giornata 
a danzare 
fino a quando non avrò davvero voglia 
di continuare a sorridere... Scenderò 
in cantina e mi siederò davanti 
all'uscio di una nuova abitazione… Farò tutto questo 
insieme a voi, 
mi metterò a piangere 
e poi lo rifarò ancora...  
                                                                                        (Venezia, 25 Giugno 2019)

Stardog Champion,
by Mother Love Bone


Ascoltando il rock dei Mother Love Bone davanti alla "loro" Seattle © Luca Ferrari
Ragazzini danzano sullo sfondo di Seattle (a dx lo Space Needle)
nel videoclip della canzone Stardog Champion dei Mother Love Bone
Seattle, murales in memoria del cantante Andy Wood e i Mother Love Bone © angy_bi

domenica 6 luglio 2014

State of Love and Pearl Jam

Trieste, il cantante Eddie Vedder (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Da Seattle all'Italia. Quasi 3 ore di concerto davanti a un pubblico di oltre 30.000 persone. A Trieste i Pearl Jam hanno fatto furore.

di Luca Ferrari

“...E di queste strade passate senza indicazioni non mi so dare spiegazioni/... Quello in cui credevo è ancora un letto intatto con il contorno a carboncino di una casa dove  una solitaria e rumorosa comunicazione è una canzone del futuro inneggiante al presente...”. Il rock senza confini dei Pearl Jam è tornato in Italia. Venerdì 20 giugno a Milano, domenica 22 giugno a Trieste.

A quattro anni dall’ultima apparizione nel Belpaese, al Parco S. Giuliano di Mestre (Ve) in occasione dell’Heineken Jammin Festival, i Pearl Jam sono tornati in Italia per due tappe del primo tour europeo del loro 10 ° album in studio, Lightning Bolt (2013), facendo due trionfali show allo stadio milanese di San Siro e al Nereo Rocco del capoluogo friulano. Nessuna band di spalla. Solo i musicisti Eddie Vedder (chitarra/voce), Stone Gossard (chitarra), Jeff Ament (basso), Mike McCready (chitarra), Matt Cameron (batteria), e il tastierista Kenneth “Boom” Gaspar.

Trieste, 22 giugno 2014, è il giorno dei Pearl Jam. Internet rivela la scaletta delle date precedenti ma la band di Seattle si sa, non propone mai la stessa track list. Dopo una sonnolenta partita dei Mondiali trasmessa sul doppio maxi schermo e con nuvoloni sempre lì a provocare timori del sempre più numeroso pubblico che va via via riempendo lo stadio, quando non sono neanche le h. 21, la band prende posto sul palco.

“...è difficile sapere a cosa sto andando incontro/
a nessuno interessa il modo di disporre
sassi e cuscini… solo poche parole
mi sono venute in mente
senza aggiungere sottrazioni d’immaginazione/
Sto provando qualcosa di diverso
che non mi è mai appartenuto prima/... oggi
le dichiarazioni di dove sono stato
le potrò rivolgere a qualcuno”
                                                          l.f

A rompere il ghiaccio è la "Versussiana" Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, seguita dalla meno celebre Low Light (Yield) e quindi la sorpresa Black. Una delle canzone più amate dai fan di tutte le latitudini. Direttamente dal primo album Ten (1991). È poi il momento della fresca Sirens e con essa ecco irrompere alle spalle della band la copertina dell'album Lighting Bolt che rimarrà poi fino a fine concerto.

Dal presente al  passato. Doppio Vs. consecutivo e Vitalogy con Why Go e Animal prima, seguite da Corduroy. Siparietto di Eddie a parte con classico brindisi rivolto ai presenti, la band non perde tempo. Suona e basta. Sfodera le possenti Getaway e Got Some, quindi la “ledzeppeliana” Given to fly, la poca cantata Leatherman (b-side del singolo Given to Fly), e la nuova e omonima dell'album, Lightining Bolt. Segue il primo singolo del suddetto album, Mind your Manners. Un rock possente erede (forse un po' troppo) della Sucker dei Motorhead

Dal più recente presente alle origini di Deep, quindi la toccante Come Back. È il momento di Even Flow. A chiudere la prima parte del concerto altre sei canzoni. Le più tranquille Down, Unthought Known, Infallible, quindi l'adrenalina lottatrice di Whipping, Do the Evolution e Rearview mirror. Una prima parte da “penotti” (lacrimoni) come si dice in dialetto veneto.

“Si ripresenta la sopravvivenza...
Non ho alcuna intenzione di frapporre
oscurità... La strada è già lunga
e la conclusione non pretende mai sequenze
di chiusura/...  per troppo tempo l’acqua
si prese il demerito di tutto quello
che poteva ancora ingigantire una minima
caduta/... l’addio a un passo/… il bisogno di restare
dove fossi per fermarmi/…  a dispetto dei piedi rocciosi
che intralciano la tua corsa,
è un costante battersi dentro il cuore"
                                                                        l.f

Dopo una breve pausa iniziano le due sessioni di bis, Encore 1 ed Encore 2, rispettivamente di sette e cinque canzoni. Apre la poco conosciuta Let Me Sleep, segue Crown of Thorns, cover dei Mother Love Bone, la band di Stone e Jeff pre-Pearl Jam. È il turno della sempre commovente e dolorosa Jeremy, quindi State of Love and Trust, Wasted Reprise, Life Wasted e Porch. Nella lunga parte strumentale niente stage diving cone agli inizi per Eddie. Oggi il cantante originario di San Diego ha una moglie, due figlie e il prossimo 23 dicembre spegnerà 50 candeline.

“… Avevo appena iniziato un viaggio
senza sapere da che parte guardare
rispetto alle ombre del futuro/... Annullato
ogni riferimento di sguardi ravvicinati,
tutto doveva continuare
a essere inghiottito… Non feci nulla
per impedire che tutto ciò avvenisse, poi un giorno
decisi di dare una forma
al sangue spiaccicato sul vetro
più “promislandianamente” ravvicinato...
Non provai nemmeno a prendere fiato… Mi  girai
dall’altra parte
e oggi guardo davanti a me, potendo
prenderle la mano”                                                                                                        
                                     l.f

Ultimo break prima della cavalcata finale con in sequenza Once, Alive, Rockin’ in a Free World (cover di Neil Young) e Yellow Ledbetter... “È  stato come se le note si dovessero ancora presentare/... È  stato
come se tra le nuvole troppo ingombranti
ci fosse spazio per qualcosa
cui non si poteva né guadare
né lontanamente immaginare/… Poi semplicemente
qualcuno di più ha riconosciuto che l’amore 
di un antico ragazzo si è affacciato
sulla delicatezza della nostra storia ricongiunta”
                                                                                         l.f

Crown of Thorns, performance by Pearl Jam in Trieste

Trieste, il bassista Jeff Ament (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Trieste, il batterista Matt Cameron (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Trieste, il pubblico al concerto dei Pearl Jam © Simone Di Luca
Trieste, il cantante Eddie Vedder (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Trieste, il chitarrista Mike McCready (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Trieste, il pubblico al concerto dei Pearl Jam © Simone Di Luca
Trieste, il chitarrista Stone Gossard (Pearl Jam) © Simone Di Luca

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