!-- Codice per accettazione cookie - Inizio -->

venerdì 23 maggio 2014

Pearl Jam, Live on Two Friends

la rock band americana Pearl Jam dal vivo
La musica può non bastare. Anche se è quella dei Pearl Jam. E allora amica mia, in attesa del tuo primo concerto, te li racconto io.

di Luca Ferrari

A neanche due anni di distanza da quando iniziai ad ascoltare i Pearl Jam ci siamo incontrati. Diciotto anni dopo ancora ci vediamo. Potrei dire anzi che ci frequentiamo più adesso che una volta. Potrei dire lo stesso della loro musica. A breve li vedremo insieme. So che non ne sai molto, ed è per questo che ho aperto le mie parole alla tua lettura. Insieme alle canzoni già passate, qui c'è tutto ciò che devi sapere.

Dopo più di vent'anni di carriera i Pearl Jam sono ancora “the people's band”, il gruppo della gente (popolo). Basterebbe forse questa frase, letta sul Guardian nel giugno 2011 in occasione di un concerto della rock band di Seattle in quel di Londra, ad Hyde Park, per spiegare che cosa siano. Per mettere a fuoco la loro inscindibile storia di normalità, amplificatori e poesia.

No amica, non starò qui a elencare quanti anni hanno, come è nata la band, etc. Per tutte le informazioni, ti rimando sito ufficiale italiano Pearl Jam Online. Io sono qui per dirti qualcosa di personale, che poi verificherai tu di persona, a Trieste, in una (sono certo) epica domenica di tardo giugno. Vedrai migliaia di fan cresciuti dentro la loro musica. Ancora desiderosi di condividere il loro-proprio mondo emozionale.

Una canzone-video su tutti riassume la prima fase dei Pearl Jam, ed è Jeremy. Scritta d'istinto (rabbioso) dal cantante Eddie Vedder alla notizia di un ragazzo che sfiancato dall'indifferenza familiare e oppressione umano-scolastica, entrò nella propria classe in un tragico giorno di gennaio, si puntò la pistola alla tempia e premette il grilletto, mettendo così fine alla sua giovane vita. Per conoscere i Pearl Jam e le loro battaglie umano-sociali non si può non partire da qui.

Tra il 1992 e il 1994 escono tre album. Vitalogy è il più complesso. Segna un momento di cambiamento. Kurt Cobain è da poco morto. Dentro Immortality c'è tutta la poetica di Vedder per una persona che sentiva molto vicina a sé. Le parole finali "Some die just to live – Alcuni muoiono per vivere" hanno segnato un'intera generazione, lasciata poi crescere troppo sola e con nessun punto di riferimento.

È la metà degli anni Novanta e il mondo della musica viene disintegrato dalla sempre più affossante cultura pop-porno di Mtv. I Pearl Jam vanno per la loro strada. Suonano e basta. Ingaggiano una feroce battaglia contro la potente TicketMaster per far abbassare i prezzi dei biglietti perché loro non hanno dimenticato cosa significa non avere soldi per andare a un concerto. La solidarietà è quasi a zero. In loro soccorso arriva solo Neil Young, in Italia insieme ai Crazy Horse il prossimo lunedì 21 luglio al Collisioni Festival di Barolo (Cn).

I cinque rockers escono un po' malconci dallo scontro ma questo cementa ulteriormente il loro lato combattivo. Per ritrovare un video ufficiale bisogna aspettare il 1998 e sarà molto censurato. Mostrano la realtà per quello che è. Immutabile. Cambiata solo nell'apparenza. Se mai ce ne fosse bisogno, il pensiero della band è più chiaro che mai. Impavido, deciso e controcorrente: Do the Evoltion

Si arriva al terzo millennio. I quattro di base sono sempre loro: Eddie (voce, chitarra), Stone Gossard (chitarra ritmica), Jeff Ament (basso) e Mike McCready (chitarra solista). Dopo qualche batterista di troppo cambiato, arriva quello definitivo, che vedrai anche tu. Il suo nome è Matt Cameron, ex-tamburo degli amici Soundgarden (per la cronaca oggi si divide tra entrambe le band, con priorità di tour però data ai PJ).

Sembrano un po' defilati ma è solo un'illusione. I fan crescono di anno in anno. La loro autenticità e coerenza li rendono una mosca bianca nel panorama insieme a esimi colleghi del calibro di R.E.M. e Bruce Springsteen. Nessun effetto speciale. Hanno solo la musica e quella offrono. Nel 2000 succede un tragico incidente durante la loro performance al Festival di Roskilde in Danimarca, nove fan perdono la vita.

È un colpo durissimo ma i Pearl Jam trovano ancora la forza di reagire, e nell'album successivo, Riot Act (2002), onorano la memoria di quei ragazzi in due canzoni: Love Boat Captain e I am Mine. Della prima è a dir poco toccante la quinta strofa, “It's an art to live with pain, mix the light into grey/ Lost 9 friends we'll never know, 2 years ago today/ And if our lives became too long/, Would it add to our regret – È un'arte convivere col dolore/, mischiare la luce nel grigio/ Abbiamo perso nove amici che non conosceremo mai, due anni fa/ E se le nostre vite divenissero troppo lunghe, Ciò accrescerebbe il nostro rammarico?”.

Non solo sentimenti umani in Riot Act. Nel post Torri Gemelle e invasione afgana, i Pearl Jam condannano senza mezzi termini la politica militarista del presidente George W. Bush. La canzone Bu$hleaguer lo spiega bene. A New York i Pearl Jam saranno fischiati dai loro stessi fan nel cantarla. Passano altri anni e la band inizia nuovi tour. Fa impressione constatare come siano più famosi ora degli esordi.

Nel 2011 il regista premio Oscar Cameron Crowe, amico della band fin dagli esordi, li celebra nel film-documentario Pearl Jam Twenty. È un'iniezione incontenibile di emozioni e adrenalina. C'è chi si piazza più di una volta davanti al grande schermo. In quelle oltre due ore di proiezione e canzoni, ognuno vede parte della propria vita passata, presente e futura.

La storia dei Pearl Jam prosegue. E quando te li ritroverai davanti domenica 22 giugno, non avrai la sensazione d'incontrare delle rock star distanti, ma al massimo degli amici che non vedi da un po' di tempo. Degli amici capaci di toccare con corde, tamburi e decibel quella parte nascosta di noi che confidiamo solo a pochi. Quel giorno però saremo tutti insieme. Quel giorno saremo tutti insieme a condividere e raccontare una storia comune.

la rock band americana Pearl Jam
i Pearl Jam dal vivo

giovedì 1 maggio 2014

Caetano Veloso, música do Brasil

il cantautore brasiliano Caetano Veloso
Dopo quattro anni di assenza, torna a esibirsi in Italia venerdì 2 maggio a Padova, il più grande musicista dell'America Latina, il brasiliano Caetano Veloso.

di Luca Ferrari, luca.goestowest@gmail.com
giornalista/fotoreporter – web writer




Venerdì 2 maggio il Gran Teatro Geox di Padova ospita un gigante della musica internazionale: Caetano Veloso. A 70 anni compiuti, non solo è il più straordinario artista dell'America Latina, ma può stare a buon diritto tra i grandi nomi della cultura pop-rock ancora in attività come Bob Dylan, Leonard Cohen, Paul McCartney e Brian Wilson.

Questo non solo per la sua storia (la fondazione del Tropicalismo, i dischi con Arto Lindsay, etc..) ma proprio per la sua produzione più moderna: un'autentica rinascita e reinvenzione come solo pochi riescono a fare. Sul palco, insieme a Veloso, la Banda Cê composta da Pedro Sa (chitarre), Marcello Callado (batteria) e Ricardo Dias Gomes (basso elettrico). 

Prima del concerto, un altro evento a ingresso libero. A partire dalle 18.30, nel foyer del Geox, si terrà, un incontro dedicato a Jobim e alla rivoluzione della Bossa Nova, cui parteciperà anche Caetano Veloso. Al tavolo con lui, Salvatore Solimeno, traduttore ed adattatore di "Antonio Carlos Jobim, una biografia” di Sérgio Cabral, Loris Casadei, editore di CasadeiLibri, Gabriella Casiraghi, presidente dell’associazione culturale Miles, organizzatrice del Padova Jazz Festival e Juliano Peruzy, italo-brasiliano, conduttore radiofonico, produttore discografico ed organizzatore di eventi.

Il motivi per cui  Caetano Veloso ha accettato di buon grado di parlarci di Antonio Carlos Jobim e della sua “rivoluzione dolce”, chiamata bossa nova, sono riportati in suddetta biografia di Jobim, di cui si riporta uno stralcio (pag. 126-127 della biografia) [qui si parla delle reazioni all’uscita nel 1958 di “Chega de saudade”

“(…) La grande rivoluzione fu quella che provocò nelle teste dei giovani e degli adolescenti che da li a qualche anno avrebbero dato vita  ad una delle più fantastiche generazioni di compositori sorte in tutta la storia della musica popolare brasiliana. A Santo Amaro da Purificação , nel Reconcavo Baiano, Caetano Veloso a 16 anni, abbandonò definitivamente il progetto di lavorare nel cinema per darsi alla musica. Fu un impatto a doppia reazione: la prima quando ascoltò Chega de saudade, cantata dalla cantante Marisa Gata Mansa, in un programma della Rádio Mayrink Veiga, la seconda provocata dal disco di  João Gilberto. “Fu il segno più nitido che una canzone abbia mai lasciato nella mia vita” (…) questa canzone, tutti la cantano. Ieri in Santo Amaro [da Purificação, Bahia], oggi, tutti conoscono Chega de saudade. È una canzone inno della musicalità brasiliana. E la musicalità brasiliana è molto importante (…)”.

Il feeling tra la città euganea e il Brasile appare chiaro. Dopo aver dedicato una piccola ma fortunata rassegna sull’incontro fra Brasile ed il jazz, Brasil_Jazz@Crowne,  si appresta a realizzare un “Omaggio a Tom Jobim” nell’ambito  Padova Jazz Festival 2014 (10-16 Novembre) e l’edizione italiana di “Antonio Carlos Jobim, una biografia” di Sergio Cabral, con traduzione ed adattamento di Salvatore Solimeno.

Alegria, Alegria di Cateano Veloso

Cateano Veloso (a sx) - foto Andrea Franco

domenica 15 dicembre 2013

Unplugged in Cobain

Kurt Cobain durante la performance Unplugged in New York
Vent'anni fa i Nirvana registrarono il concerto MTV Unplugged in New York. Kurt Cobain (1967-1994) si congeda con la poesia della sua tormentata anima musicale.

di Luca Ferrari

Vent’anni sono tanti da ricordare. Quelle musiche. Quel concerto. Quella fine. Tutto questo non è mai stato dimenticato. I Nirvana di Kurt Cobain, Krist Novoselic e Dave Grohl suonano un delicato concerto acustico. Insieme a loro cìè anche la seconda chitarra dell'ex-Germs, Pat Smear.

...Durante svariate notti pensavo che anche certe ore non avessero bisogno di nessuno/… una sola intenzione provvedeva alla sponda alquanto simile… la strada era pronta per bruciare tutte le fotografie d’ogni armeria...

14 le tracks dell’MTV Unplugged in New York dei Nirvana. Canzoni da tutti gli album della rock band: About a Girl (Bleach,1989). Come as You Are, Polly, On a Plain e Something in the Way (Nevermind, 1991). Pennyroyal Tea, Dumb e All Apologies (In Utero, 1993). Insieme a loro alcune cover: Jesus Don't Want Me for a Sunbeam (The Vasolines), The Man Who Sold the World (David Bowie), tre cover dei punk Meat Puppets (Plateau, Oh Me, Lake of Fire) e infine Where Did You Sleep Last Night? del bluesman Leadbelly.

“Se tutto è così insignificante e programmato, allora l’onda della follia meriterebbe più rispetto/...  Perché è così facile voler bene a qualcuno?... a volte credo d’aver capito, a volte mi sento solo il sopravvissuto di un’era che deve ancora arrivare” gennaio/febbraio1995

Fin dalla prima trasmissione, fece molto scalpore vedere come una band rock molto legata alle distorsioni dei newyorkesi Sonic Youth e con una forte carica rabbiosa nella voce del cantante, avesse trovato una delicata dimensione acustica di elevatissima qualità.

Kurt Cobain è lì. Rilassato. O forse rassegnato. Appena pochi mesi dopo si sarebbe suicidato nella sua casa poco fuori Seattle.

“non voglio guardare dove sono arrivato
perché le bruciature delle mie dita
sono ancora troppo importanti

non sono ancora certo
della forma delle stelle
e questo è tutto… hai voglia di comunicarmi
qualcosa che non so?
Avresti voglia di attualizzare
la mia ignara lista di desideri?

le tante parole scritte sulle strade non hanno mai avuto una fine

potrei indossare un copricapo
oppure ricominciare
senza di me… oppure ingigantire chissà quale immagine
contraffatta … i rastrelli
sulla sabbia non dovrebbero
essere costantemente rivolti
verso il mare, e questo
nessuno ce lo ha mai voluto dire

sono abbastanza certo
di sapere cosa ho voluto, ma non è mai stato
abbastanza

e anche se continuerò a sentirmi indifeso
e poco idoneo a capire come mi comporterò
non potrei mai vendere la prossima frase,
                                                               (15 dicembre 2013)                

Oh Me (1993, Unplugged in New York) - Nirvana feat. Meat Puppets

i Nirvana live in New York unplugged

giovedì 28 novembre 2013

Audioslave, i fuochi di Cochise

Audioslave, il video di Cochise - Tim Commerford
Poderosa e tonante. Cochise, primo singolo degli Audioslave. Ascoltarla sotto i fuochi d’artificio del Redentore a Venezia è tutta un’altra storia.

di Luca Ferrari

“Ormai non posso più semplicemente associare questa canzone degli Audioslave al video o alla mera faccia di Chris (Cornell, ndr) quando esplode nell'urlo prima del ritornello finale” racconta la milanese Desirée, “Cochise è una tovaglia bianca per terra. Qualche birra. La gente che rincontrerai. Cochise sono due amici che hanno appena avuto la stessa idea”.

Dalle ceneri di due delle più significative band degli ultimi trent’anni, Soundgarden e Rage Against the Machine, a inizio Terzo Millennio nacquero gli Audioslave. Il nuovo gruppo era formato dagli ex-RATM Tom Morello (chitarra), Tim Commerford (basso) e Brad Wilk (batteria), con l’aggiunta del cantante made in Seattle, Chris Cornell.

Un’unione impensabile per certi versi (stile). Rap-rock politico da una parte. Rock distorto-melodico dall'altra. E i commenti infatti erano unanimi: “Qualunque cosa faranno o sarà un flop o un capolavoro”. L’attesa per conoscere il valore di questo atipico sodalizio artistico finì il 14 ottobre 2002 quando venne pubblicato Cochise, il primo singolo (con videoclip) del debut album Audioslave (Epic Records), prodotto da Rick Rubin. Il titolo della canzone si richiamava al celebre capo dei Chokonen, tribù di Apache Chiricahu, il valoroso guerriero Cochise.

Cochise è mettere le cuffie. Immaginare quel cazzutissimo video all’americana mentre partono le ultime scintille in cielo” settaccia Desirèe tra i suoi primi ricordi, “Fare headbagging mentre gli altri ti guardano strano perché non c’è musica da Wayne's World (1992) nell'aria”.

Le prime battute di Cochise sembrano introdurre alla perfezione l’inizio di una sfida, mentre tutto il proseguo potrebbe essere l’azione vera e propria tra attacchi, sangue, cadute e la vittoria finale. Confesso mi sorprende non sia mai stata utilizzata per colonne sonore per supereroi Marvel o le varie Katniss (Hunger Games).

Dopo un intro “controllato”, la musica esce dai blocchi bruciando in modo devastante. All’esplosiva chitarra si aggiungono le prime tracce di “badmotorfingeriana” memoria:  “Well I been watchin’/ While you been coughin/ I've been drinking life While you been nauseous/ And so I drink to health/ While you kill yourself/ And I got just one thing/ That I can offer”.

Trad. “…Bene, sono stato a guardare/ mentre tu hai tossito/ ho bevuto la vita/ mentre tu sei stato più furbo/ e così bevo alla salute mentre tu ti uccidi/ e ho giusto solo una cosa/ da offrire”. L’impossibile era diventato realtà. La sezione ritmica dei Rage Against the Machine e la voce melodico-rabbiosa di Chris Cornell insieme.

In un’epoca dove ormai la volgarità e l’omologazione avevano già sodomizzato a morte MTV, il video di Cochise insieme ai contemporanei I Am Mine (Pearl Jam) e You Know You’re Right (postumo dei Nirvana) furono un’impensabile e adrenalinica sorpresa. Una poderosa scossa di terremoto rock in un 2002 sempre più schiavo di scadenti video hip-pop e gangsta.

il livello sale, le cicatrici si contendono l’accesso al cielo/… la salvezza è una questione divina o un’azione da rivolgere a noi stessi?… Fingo di fare una domanda perché l’opinione degli altri non ha mai tenuto conto di dove eravamo prima che le ombre ci avessero apertamente sfidato

In perfetto stile Canzoni tra le righe, per la suddetta ragazza intervistata, Cochise nel tempo è passata da mera (grandiosa) canzone degli Audioslave a un preciso ricordo con uno scenario non così diverso da quello della spettacolare ambientazione del video musicale.

“Non posso più associare questa canzone semplicemente al video, quando Tom e gli altri entrano dentro l'ascensore e la scossa di assestamento del motore che parte per la salita segna l'inizio della canzone” dice Desiree.

E via con la seconda strofa. “Well I'm not a martyr/ I'm not a prophet/ And I won't preach to you/ But heres a caution/ You better understand/ That I won't hold your hand/ But if it helps you mend/ Then I won't stop it – Bene, non sono un martire/ non sono un profeta/ e non sarò io a farti la predica/ ma c'è una clausola/ capisci meglio/ che non vorrò fermarti la mano/ ma se chiederà aiuto, tu fallo/ poi non la vorrò fermare”

“Non posso più solo associare questa canzone alla faccia di Chris quando esplode con quell'urlo (che nel video dura molto di più che nel pezzo su cd, o almeno la mia versione dura pochissimo), con le vene che gli pulsano tra fronte e collo” continua Desirèe.

La terza strofa (di cui sopra Desy ne descrive la corrispondente scena nel videoclip) pare fatta per far rifiatare la band, ma è solo una mera illusione. “Drown if you want/ And I'll see you in the bottom / Where you crawl/ On my skin/ And put the blame on me/ So you don't feel a thing” – trad. “Vai se vuoi/ ed io ti guarderò fino in fondo/ dove striscerai/ sulla mia pelle/ e mi darai la colpa/ così tu non sentirai nulla”

“Poi un giorno Cochise non fu più solo il singolo di debutto degli Audioslave per noi orfani di RATM e Soundgarden (all’epoca). Non fu più solo l'abbraccio tra tutti i quattro componenti della band a fine canzone, che ora se ci penso, cazzo, sembra quasi la copertina di Ten (primo album dei Pearl Jam, ndr)” sottolinea Desirèe.

rock the Audioslave
Ma che cos’è allora Cochise per te, Desiree Sigurtà?

“Cochise è diventata una sera di luglio a Venezia. Alla festa del Redentore, davanti all'Arsenale. Dove quasi non si vedeva nulla tanto il bacino era intasato di barche, e un vaporetto ostruiva pure la visuale. Cochise è una tovaglia bianca per terra, qualche birra, la gente che sai un giorno rincontrerai”.

...forse ho meno sassi sotto le scarpe di quanto pensi, ma non c’è mano che non abbia patito la carenza d’innocenza/… i passi odierni che ci tengono a distanza oggi sono scivoli colorati che le stelle rappresentano nel loro sognare di essere donne e uomini…

“La canzone Cochise degli Audioslave sono due amici (di cui uno vestito con un’improbabile camicia-tovaglia) che si guardano negli occhi e hanno la stessa fottutissima idea” conclude Desiree, “quando partono gli ultimi fuochi d'artificio, parte anche Cochise”… Go on and save yourself, And take it out on me yea - Vai e salva te stesso tira fuori da me la volontà. 

Audioslave, il video di Cochise

Audioslave, il video di Cochise - Chris Cornell
Audioslave, il video di Cochise - Tom Morello
Venezia , si guardano i fuochi del Redentore ascoltando Cochise (Audioslave) © Luca Ferrari
Venezia , si guardano i fuochi del Redentore ascoltando Cochise (Audioslave) © Luca Ferrari
Venezia , si guardano i fuochi del Redentore ascoltando Cochise (Audioslave) © Luca Ferrari

giovedì 7 novembre 2013

Pussy Riot, taci e Mosca

Nadezhda Tolokonnikova (Pussy Riot)
La Russia Putiniana tappa la bocca a Nadezhda Tolokonnikova (Pussy Riot). Nessuno sa dov’è stata trasferita. La protesta di Amnesty International.

di Luca Ferrari

Ma che fine hanno fatto i musicisti impegnati? È possibile che nessuno voglia sfidare lo zar Vladimir in difesa di tre ragazze punk? Cosa penserebbero di tutto ciò i vari Joe Strummer la leggendaria voce dei Clash, o un John Lennon dinnanzi a tutta questa indifferenza? Pussy Riot abbandonate da tutti, anche dal loro mondo. 

Il 22 ottobre scorso l'attivista russa, nonché membro del gruppo punk rock Pussy Riot, Nadezhda Tolokonnikova, è stata prelevata dalla colonia penale dove stava scontando una condanna a due anni di prigionia, con possibile (?) trasferimento verso un’analoga struttura in Siberia. Amnesty International ha dichiarato che il continuo rifiuto da parte del Governo di rendere noto dove si trovi la donna, è una prova fin troppo evidente dell’intento delle autorità russe di ridurla al silenzio.

“Nadezhda Tolokonnikova ha denunciato pubblicamente le minacce ricevute da funzionari delle carceri” ha dichiarato Denis Krivosheev, vicedirettore del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International, “Temiamo che la sua situazione attuale rappresenti la punizione per aver protestato contro le sue deplorevoli condizioni detentive. La giovane è una prigioniera di coscienza che non avrebbe mai dovuto essere arrestata”.

La Russia di Putin è una delle più grandi e potente dittature del mondo, ma per uno strano caso le sue riprovevoli azioni risultano sempre molto trascurate dal movimenti pacifisti e nonviolenti occidentali evidentemente troppo impegnati a scendere in piazza solo per più abbordabili nemici. Amnesty International è una piacevole anomalia e oggi torna ad alzare la voce contro Mosca chiedendo spiegazioni sul destino della musicista Nadezhda Tolokonnikova (Pussy Riot).

“Se fosse vero che Nadezhda è stata portata  una colonia penale distante migliaia di chilometri da Mosca, ciò renderebbe ai suoi avvocati e familiari quasi impossibile incontrarla, in violazione dei diritti umani della detenuta e della stessa legislazione russa” ha poi concluso Krivosheev.

Diritti umani in Russia? C’è chi ha provato a denunciarne la loro costante violazione. Era una piccola e coraggiosa donna di professione giornalista sempre in prima linea per il settimanale Novaja Gazeta. Il suo nome era Anna Politkovskaja. Come sia morta lo sappiamo tutti. Freddata sulla porta dell’ascensore di casa. Chi siano i mandanti, lo sappiamo tutti.

il gruppo punk-rock Pussy Riot

sabato 12 ottobre 2013

Pearl Jam, Let the Lightning Bolt Play

i Pearl Jam da Seattle





















Hanno ispirato vecchie e nuove generazioni. La rock band americana Pearl Jam ha realizzato il decimo album in studio: Lightning Bolt.

di Luca Ferrari

Da più di vent’anni accordano quel mondo che non ha mai voluto arrendersi. Lunedì 14 ottobre 2013 esce il disco Lightning Bolt (Monkeywrench Records/Republic Records), 10° album dei Pearl Jam. A parte il batterista Matt Cameron (in pianta stabile dal 1998) e il tastierista Kenneth Boom Gaspar con i PJ dal 2002, gli altri quattro membri della band sono gli stessi degli esordi: i due chitarristi Stone Gossard e Mike McCready, il bassiste Jeff Ament e il cantante Eddie Vedder.

"In questo nuovo lavoro è sempre più Eddie a fare la differenza, elevando buone canzoni a grandi canzoni (Sirens, Future Days, Getaway)" racconta in esclusiva per il magazine online Live on Two Hands l’esperto "pearljammer" trevigiano Omar Nizzetto, in prima fila lo scorso febbraio al live milanese dei Brad (il side project di Stone Gossard).

"Poi ci sono delle sorprese musicali in grado di, letteralmente, rapirti con un ritmo che non ti aspetteresti (Infallible, Pendulum e in parte anche Father’s Son e Let the records Play)" prosegue, "Per onestà intellettuale, resta un po’ di amaro in bocca pensando che magari avrebbero potuto osare di più su altri pezzi invece di giocare sul sicuro su buone ma convenzionali song (Lightining Bolt, Mind your Manners, Yellow Moon)”.

Una carriera ormai più che ventennale quella dei Pearl Jam. Canzoni che sanno sempre emozionare (anche il peggior disco dei Pearl Jam è un raggio di luce in questa ormai decennale grigia depressione musicale, sottolinea deciso Omar). Un sound e uno spessore impermeabili a qualsiasi moda o presunta tale. Una solidità umana e una coscienza sociale degna erede dei vari Bob Dylan, Patty Smith, Bruce Springsteen, etc.

Sotto la sapiente e veterana produzione dell’onnipresente Brendan O’Brien, la band, formatasi nella Seattle dei primi anni Novanta, con l'album Lightning Bolt ha raggiunto la doppia cifra in studio. "L’attesa per un imminente nuovo album dei Pearl Jam è simile solo a quella che da bambino provavi sapendo che il giorno dopo saresti salito nella tua giostra preferita al lunapark” sottolinea Omar, "È la sensazione del giorno prima della festa, che a volte si rivelava più carica d’emozione che la festa stessa.

Ascoltare le prime note di un loro nuovo disco è come quell’attimo in cui l’energia alimentava la giostra e l’adrenalina ti coglieva in pieno. Ascoltare il resto del disco è stato come proseguire lungo le rotaie della giostra. Tra salite e discese, giri della morte e attese prima di ricominciare tutto daccapo. Ascoltare Lightning Bolt per la prima volta è stato tutto questo. Nuovamente".

Dodici le canzoni del nuovo album dei Pearl Jam, Lightning Bolt (2013):

01 Gateaway (3:26) – Chiamatela deformazione professionale, ma prima ancora che partano le note dell’inizio di Lightning Bolt, il titolo della prima canzone mi rimanda a vent’anni esatti fa. Alle lyrics di Scentless Apprentice (In Utero 2003) dei Nirvana dove Kurt Cobain siglava il suo marchio di fabbrica con semplici giochi di parole: get away (va via), get a way (scegli una strada). Inizio l’ascolto. Il ritmo sa di festa tra amici. Il basso di Jeff Ament scorre pulito. La voce di Eddie si alterna tra corse moderate e andature più lente. Ma questa non è una materia per scattisti. È una maratona e siamo appena all’inizio. Un lungo percorso dove ho il mio modo di credere  (I’ve got my own way to believe). Una strada infinita dove talvolta bisogna mettere tutta la propria fede nella non fede (Sometimes you find yourself having to put all your faith in no faith).

02 Mind Your Manners (2:38) – Il primo singolo e dunque già conosciuto. Confesso che mi entusiasmò poco. Song standard con fin troppo facili reminiscenze alla Spin the Black Circle, canzone quest’ultima vincitrice di un Grammy Award nel 1996. Un testo che pare attingere ancora dall’interiorità più riottosa non solo di Eddie, ma dell’intera band. Finale che più rock non si potrebbe. E già s’immagina uno stage diving di tutto rispetto. "Non sarà più tempo per i capolavori" annuisce Omar Nizzetto, "ma da questi cinque ragazzi ci si potrà attendere sempre e comunque il meglio"

03 My Father’s Son (3:07) – Il figlio di mio padre. Devo ancora ascoltarla ma con un titolo così me la immagino alla Daughter. Sarà così? Non resta che scoprirlo… Previsione del tutto errara. Il ritmo è decisamente più veloce rispetto alla terza canzone di Vs (1993). Qualche reflusso alla MFC (Yield). Il testo è profondo. Segreti, rancori e sofferenze. “Cannot forget you’re hiding collected wounds left unhealed/, When every thought you’re thinking sinks you darker than the new moon sky,/ The faraway lights rising in the whites of your eyes… Non posso dimenticare che hai nascosto ferrite lasciate senza cura/ Quando ogni pensiero che avevi ti faceva affondare nell’oscurità più nera del cielo senza luna/ Le luci lontane si stanno risvegliando nel bianco dei tuoi occhi”. Un finale con la chitarra di Mike che da come l’impressione di aver ancora molta energia da condividere.

04 Sirens (5:41) – L’altra canzone già nota, ribattezzata la I am Mine di questa nuova decade e facilmente riconducibile a essa anche per la somiglianza del video (e della chioma del singer, più corta però all’epoca di Riot Act, 2002). La track più lunga dell’album. Prendano nota i rocker più romantici perché qui c’è una farse da trascrivere a penna su una lettera e consegnare alla propria amata: “For every choice, mistake I made, is not my plan/ To see you in the arms of another man/ And if you choose to stay, I’ll wait, I’ll understand – Per ogni scelta, errore che ho fatto, non era nei mie piani di vederti tra le braccia di un altro uomo/ E se decidi di restare, aspetterò. Capirò”. Non riesco a non pensare che tra le parole finali della prima strofa, “But all things change, let this remain – Ma tutto cambia, lascia che questo rimanga”, la dichiarazione d’amore non sia solo quella tra due persone, ma da una band a se stessa. Una dolce auto-dedica che in molti condivideranno.

Pearl Jam, il video di Sirens
• 05 Lightning Bolt (4:13) – Tocca alla canzone che da il nome all’album, dualismo questo di cui non sono un grande fan. Un coro di chitarre dove già vedo Stone e Mike andare su e giù per il palco strizzando l’occhio a Ron (Wood) e Keith (Richards), scambiandosi di posto. Una canzone da sentire e cantare live assolutamente. 
 
06 Infallible (5:22) – Inizio alla Tremor Christ (Vitalogy, 1994). Miscela sonora anomala per i Pearl Jam. Lascio la testa viaggiare. Abbandono il tappeto di parole su cui continuo a correre. Anche se sono solo a metà tragitto, non mi pare di aver mai iniziato ed essere ancora davanti a uno stereo con la cassetta che gira. Senza nemmeno mezzo pensiero sul tempo che passa. Con l’assolo quasi finale ho la certezza di un’ombra seduta vicino a me. Silenziosa e piangente di commozione.

07 Pendulum (3:44) –“We are here and then we go/ my shadow left me long ago – Siamo qui e poi ce ne andiamo/ La mia ombra mi ha abbandonato molto tempo fa”. Ritmo più lento. Oscuro. Un viaggio sonoro senza superflui caratteri alfabetici e dove, se mai esistesse ancora qualcosa che non è come sembra, adesso è arrivato il tempo di confrontarsi. “I'm in the fire but I'm still cold – sono il fuoco ma ho ancora freddo” sussurra ad alta voce Eddie Vedder. Poi il tambureggiare di Matt Cameron semplicemente dice basta, e tutti eseguono. In silenzio.  Ad anime (sicuramente) unite.

08 Swallowed Whole (3:51) – Echi REMiani in questa nuova canzone. Boulevard aperti dove le finestre si aprono per recitare una preghiera zen, buddista o per ricollegarsi a ciò che si diceva all’inizio, a ciò in cui si crede. “I could choose a path, I could choose the word/ I could be the sun, I could be the sound/– Potrei scegliere un sentiero, Potrei scecgliere una parola… Potrei essere il sole, Potrei essere il suono”. Consigliabile da ascoltare con le luci plumbee di un’alba invernale.

09 Let the Records Play (3:46) – Ritmo incalzante e altra song dalla decisa propensione live. Se i Pearl Jam volevano dirci qualcosa, quel “I’ve been off but but I'm on my feet, my feet again – Sono stato lontano ma sono di nuovo sui miei piedi” è quanto di più genuinamente combattivo possa ergersi dalla loro monumentale normalità. O normale saggezza, chiamatela come vi pare.

10 Sleeping By Myself (3:04) – Per onestà di cronaca, è la prima che rimetto ad ascoltare. C’è qualcosa di “alatamente” poetico che mi sfugge. Esplode il tema dell’incertezza. “Forever be sad and lonely/ Forever never be the same/ Oh I close my eyes and wait for a sign/ Am I just waiting in vain? – Per sempre  triste e solo/ Per sempre mai lo stesso/ Oh, chiudo gli occhi e aspetto un segnale/ Sto aspettando invano?”. Per quelli che di Generazione X non volevano più sentir parlare, adesso si devono confrontare ogni giorno con qualcosa di ancor peggiore. Senza filastrocche da canticchiare sulla spiaggia. Ma no, non può finire così. Una rock lullalby per credere che si possa fare ricominciando da sé. “I’m beginning to see/ What's left of me is gonna have to be free to survive – Sto cominciando a scoprire/ Ciò che è rimasto di me sarà libero di sopravvivere”. Forse oggi ci meritiamo qualcosa di più della sopravvivenza ma è innegabile che tutto possa (ri)cominciare lasciandoci andare a un sogno. Chiudendo gli occhi. 

11 Yellow Moon (3:52) – La sofferenza non fa parte solo dei nostri specchietti retrovisori. Eddie Vedder prende fiato e non ancora pago dell’ispirazione del film Into the Wild, ritorna con un inno naturalista dove è impossibile distinguere tra stelle cadenti e ricordi/accordi. C’è una battaglia interiore da cui non si scappa. Qui, sotto la Luna, l’eco non è solo una voce uguale alle nostre parole. Un consiglio alla band: quando la suonerete in concerto, invitate Neil Young sul palco a metterci del suo.

12 Future Days (4.22) – E siamo alla fine. Si comincia con le delicate note di un piano e anche in questo caso preparino i fazzoletti i più sensibili. “If I ever were to lose you/ I’d surely lose myself/ Everything I have dear/ I’ve not found by myself – Se dovessi perderti/ Perderei sicuramente anche me stesso/ Tutto ciò che ho di più caro/ Non l’ho trovato da me”. Una canzone perfetta per chiudere un concerto. E ricominciare. Con l’accendino alzato per illuminare l’oscurità e ripetere tutti insieme “I believe and I believe ‘cause I can see/ Our future days, days of you and me – Io credo, io credo perché posso vedere i nostri giorni futuri, i giorni di te/voi e me”.

i nostri giorni futuri, i giorni di te e me... 

Pearl Jam (da sx): Mike McCready, Boom Gaspard, Matt Cameron, Eddie Vedder,
Jeff Ament e Stone Gossard

lunedì 22 luglio 2013

Mark Lanegan, pura anima e sound

Duke Garwood (sx) e Mark Lanegan
Doppio live autunnale a Bologna e Mestre (Ve) per il songwriter Mark Lanegan, al suo primo sodalizio artistico con il poli-strumentista inglese Duke Garwood.


 Un musicista eclettico come ce ne sono ancora pochi in circolazione. Dal decennio (1986-96) come frontman degli Screaming Trees a una variegata carriera solista. Instancabile artista. Inventore di note e parole. Il suo nome è Mark Lanegan. Dopo tre album realizzati insieme alla cantante scozzese Isobel Campbell, il 2013 segna l’inizio di una nuova collaborazione, con il poli-strumentista londinese Duke Garwood.

Lo scorso maggio hanno realizzato l’album Black Pudding (2013, Heavenly Recordings). Mark e Duke suoneranno live lunedì 18 novembre al Teatro Duse di Bologna e l’indomani, martedì 19, al Teatro Corso di Mestre (Ve). Sebbene sia il primo lavoro realizzato dai due, non si può dire essere casuale il sodalizio artistico. Oltre ad aver aperto molti dei concerti del recente tour europeo di Lanegan, Garwood ha anche suonato in due brani di Blues Funeral (2012, il settimo album solista di Mark).

Folk. Blues minimale e ipnotico. Black Pudding mette in risalto lo spessore e il virtuosismo di Garwood alla chitarra nonché l'unicità della voce (baritonale) e delle liriche di Lanegan. "Duke Garwood è uno dei miei artisti preferiti di sempre" ha sottolineato Mark, "lavorare a questo disco con lui è stata una delle migliori esperienze della mia vita". Della stessa corrispettiva idea, il diretto interesso, “Penso che Mark sia come John Coltrane: pura anima e sound”.  

Quella con Duke Garwood è solo l'ultima di una serie di collaborazioni che hanno scandito la carriera del musicista originario di Ellensburg (Wa, USA). Da Greg Dulli ai Queens of the Stone Age, passando per Soulsavers, Moby e la cantautrice canadese Melissa Auf der Maur (ex-Hole e Smashing Pumpkins).
Mark Lanegan e Duke Garwood © Steve Gullick

lunedì 15 luglio 2013

Mind Your Pearl Jam

Pearl Jam, il singolo Mind your manners (Lightning Bolt)
Preceduto dal singolo Mind Your Manners, esce lunedì 14 ottobre Lightning Bolt, il decimo album della rock band americana, Pearl Jam.


Tornano i Pearl Jam con un nuovo album, Lightning Bolt (2013, Monkeywrench Records). In attesa che la band faccia conoscere il nuovo disco dal vivo anche nel vecchio continente, è già stato annunciato un tour nordamericano che partirà venerdì 11 ottobre a Pittsburgh e si concluderà a “casa”, venerdì 6 dicembre a  Seattle.

Ma perché nell’epoca della cultura omologata e reality show si dovrebbe ancora voler ascoltare una band nata nei primissimi anni ’90? Ecco dieci valide risposte/ragioni:

1) Testi: Eddie Vedder è un paroliere eccezionale. Ha una profondità non comune. Ma non c’è solo lui. Le lyrics della band portano i nomi anche degli altri membri, a cominciare dal chitarrista Stone Gossard e il batterista Matt Cameron.

2) Musica: possono piacere o meno, ma è indubbio che siano tutti degli ottimi musicisti (a detta degli stessi colleghi non loro ammiratori). La sezione ritmica di Jeff & Matt è impeccabile. Le chitarre di Stone & Mike si completano. La voce e il carisma di Eddie chiudono il cerchio perfetto.

3) Live: la loro dimensione dal vivo è più unica che rara. Nessun effetto speciale. Solo loro, la musica e il pubblico. Sono ancora e sempre di più la band globale della porta accanto.

4) Forza: vennero dati per morti dopo il tragico suicidio di Kurt Cobain (1994) prima, e dopo la tragedia di Roskilde (2000) poi. Hanno sempre reagito con la normalità della poesia più visceralmente e reattivamente musicale.

5) It’s Evolution, baby: la storia dei Pearl Jam è la storia di molti di noi. Nei loro testi si delinea la crescita non solo artistica, ma anche e soprattutto come esseri umani.

6) Indipendenza: quando la band aveva pochissimi anni di vita, ha sfidato la potentissima Ticketmaster per far abbassare i prezzi di biglietti, senza dimenticarsi di cosa significa avere 20 anni e non poter andare a vedere un concerto. Nell’epoca dell’esplosione di MTV non hanno più fatto video, andandosene per la loro strada. Hanno suonato contro George W. Bush a New York pochi anni dopo il crollo delle Torri Gemelle beccandosi fischi e vedendo gente disertare l’arena. Non si sono fatti intimidire e hanno proseguito.

7) Arte: a partire da Vitalogy (1994) ogni cd ha assunto le sembianze di un vinile (amatissimo dalla band). L’art work viene spesso realizzato dall’esperto Jeff Ament. Una vera manna rispetto alla spettrale desolazione degli mp3.

8) Eterogeneità: tutti hanno portato avanti progetti paralleli. Matt Cameron ha addirittura ripreso posto nei tamburi dei Soundgarden, ma questo non ha minimamente intaccato la coesione e l’alchimia della band.

9) Temple of The Dog: con Matt ai tamburi, è probabile che presto o tardi divideranno un tour con i Soundgarden e sarà inevitabile che Chris Cornell si unisca a loro sul palco per suonare qualche pezzo dei Temple of the Dog, in eternal memory of Andy Wood.

10) Amiciza: di loro e di noi. Sono poche le band rimaste sempre le stesse da oltre vent'anni senza essersi mai prese pause. Dopo Dave Abbruzzese, alla batteria dei PJ si sono seduti Jack Irons (amico della band) e dal 1998 è subentrato in pianta stabile Matt Cameron, che li ha visti crescere. Per il resto sono sempre stati loro: Mike McCready, Eddie Vedder, Stone Gossard e Jeff Ament. Sono una famiglia. Un valore che si trasmette anche ai fan. Non si può essere fan dei Pearl Jam senza condividerne le battaglie e/o i valori. O meglio, si può ma non è la stessa cosa.

E se ancor oggi ti capita di avere la pelle d'oca anche solo guardando l’oceano di notte, non sarà difficile che le prime immagini che ti passino nella mente e nell'anima siano quelle di una loro canzone ascoltata insieme a una persona speciale. O anche da soli ma comunque veri... The ocean is full cause everyone's crying/ The full moon is looking for friends at hightide/ The sorrow grows bigger when the sorrow's denied/ I only know my mind/ I am mine

La storia continua.

Pearl Jam (da sx): Mike McCready, Jeff Ament, Matt Cameron,
Eddie Vedder e Stone Gossard
Atmosfera alla Hunger Strike sulla spiaggia di La Push (Wa, USA) © Luca Ferrari
La Push (Wa, USA) © Luca Ferrari

venerdì 12 luglio 2013

Neil Young, Old Crazy Horse

Neil Young & Crazy Horse in tour
È la storia della musica. Neil Young (Toronto '45). Il grande vecchio del rock. Album solisti. Live. Raccolte. Colonne sonore.

di Luca Ferrari
 
Neil Young.  Membro dei Buffalo Springfield, del supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young. Un album a metà anni ’90 con i Pearl Jam (Mirror Ball) e un ruolo fondamentale per la continuazione della storia della band. Una storia infinita con i Crazy Horse. L’ultimo album insieme, nel 2012, Psychedelic Pill.

Dal 1986, insieme alla moglie Pegi, organizza ogni ottobre-novembre a Mountain View (California) il concerto benefico Bridge School Benefit, per raccogliere fondi per i bambini disabili. Con la sola eccezione del 1987, l’evento si è sempre svolto potendo contare sul contributo di moltissimi grandi artisti. Nell’edizione 2012 si esibirono Neil Young and Crazy Horse, Guns n’ Roses, Eddie Vedder, Jack White, The Flaming Lips, Sarah McLachlan, Foster the People, Lucinda Williams, Steve Martin and the Steep Canyon Rangers, k.d. lang and the Siss Boom Bang, Gary Clark Jr. e Ray LaMontagne.

Dopo un’assenza lunga 12 anni, Neil Young & Crazy Horse (Frank "Poncho" Sampedro, Billy Talbot, Ralph Molina) suoneranno live in Italia giovedì 25 luglio in Piazza Napoleone al Lucca Summer Festival e l’indomani (26.07) all’Ippodromo delle Capannelle in occasione del Rock in Roma.

Pocahontas (live) by Neil Young & Crazy Horse

Neil Young è pronto per l'Italia

mercoledì 27 marzo 2013

Jason Newsted, here's the Metal

il possente bassista Jason Newsted
Abbandonati i Metallica, il possente bassista Jason Newsted è tornato con un nuovo singolo. E aprirà lo show milanese degli Slayer.

di Luca Ferrari

È stata l’ultima vera anima heavy metal dei Metallica. Le sue instancabili quattro corde hanno risuonato negli album ...And Justice for All (1988), Metallica (1991), Load (1996), Reload (1997), Garage Inc. (1998) e S&M (1999), quest’ultimo un doppio cd live con il meglio del repertorio della band interpretato insieme all’orchestra sinfonica di San Francisco diretta dal Michael Kamen.

Dopo la rottura con Hetfield e soci, il bassista Jason Newsted ha dato vita a due progetti: gli Echobrain prima e i Voivod poi, con cui ha realizzato tre album ciascuno.

Oggi, dopo qualche tempo di silenzio, il possente bassista originario di Battle Creek (Michigan) è tornato con un EP dall’eloquente nome Metal (2013, Chophouse Records). Quattro le tracce presenti: Soldierhead (4:16, di cui è anche uscito il videoclip), Godsnake (5:16), King of the Underdogs (6:00) e Skyscraper (6:36).

In occasione del tour della trash metal band Slayer, Jason sarà lo special guest per la quarta e ultima tappa italiana. Dopo Padova (Gran Teatro Geox, 15 giugno), Roma (Atlantico, 17 giugno) e Firenze (Obihall, 18 giugno), il bassista/cantante Tom Araya, il batterista Dave Lombardo e i chitarristi Jeff Hanneman e Kerry King saranno preceduti nel loro live milanese, all’Alcatraz mercoledì 19 giugno, da Jason Newsted.

Slayer: (da sx) Jeff Hanneman, Kerry King, Dave Lombardo e Tom Araya © Mark Seliger

Cerca nel blog

Post più popolari