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Visualizzazione post con etichetta Lightning Bolt. Mostra tutti i post
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martedì 17 maggio 2022

Sirens, il richiamo dei Pearl Jam

Il cantante Eddie Vedder nel video Sirens (Pearl Jam)

In quasi trent'anni di ascolto dei Pearl Jam, mi sono allontanato dalla loro musica in più occasioni. Oggi, grazie a un imprevisto e sofferente ascolto di Sirens, ho sinceramente ricominciato.

di Luca Ferrari

Il mio primo grande distacco dalla musica dei Pearl Jam avvenne durante l'estate del 1998. All'epoca venivo da tre anni vissuti più intensamente che mai al loro fianco, alternandoli in modo profondamente totalizzante alla poesia dei Nirvana e la saggezza distorta di Neil Young, e passando anche per quell'epico e mio primo concerto del 12 novembre 1996 a Roma. Uscito Yield, con tanto di primo ascolto solitario davanti al mare su compact disco portatile, il mondo stava cambiando a una velocità a cui non riuscivo più a stargli dietro, e la loro musica, in qualche modo, fu l'emblema di tutta quella poesia che non trovava una direzione. Come avrebbero detto i diretti interessati agli esordi "All the love gone bad, turned my world to black"..

Musicalmente iniziai a prendere direzioni diverse: Garbage, Skunk Anansie e in particolare si consolidò il rapporto con Marilyn Manson, anche lì reso immortale da un concerto vissuto in condizioni umane molto difficili (per non dire impossibili) alla fine di quello stesso estenuante anno. Nel 2000 i Pearl Jam vennero a suonare in Italia ma io non mi sentivo più in sintonia con loro, e dopo aver acquistato il biglietto per l'Arena di Verona, lo vendetti. Sì, avete letto bene! Intanto però il destino era dietro l'angolo, e partito per il mio primo stage di lavoro, senza saperlo, una mia compagna di viaggio originaria di Vercelli, era una fan sfegatata dei PJ e dei suoi carissimi amici avevano formato una cover band: i NOD (Not Ordinary Dogs).

Fu grazie a questi ultimi che il sound di Seattle tornò prepotentemente a miscelare ogni emozione artistico-umana nella mia vita. Seguì un periodo di ascolto molto intenso, consolidatosi in modo devastante nel 2003 nel pieno della mia vita fiorentina. Il secondo distacco, avvenne verso il 2004-05, ed era come se ogni volta che la mia vita non sapesse riprendersi, la loro musica ne pagasse il prezzo. O forse, la volevo preservare, non lo so. Questa volta però, la ripresa fu scandita proprio da un loro album, Pearl Jam (2006), con il quale tra l'altro riscrissi una fetta della mia vita iniziando a correre, e rivedendo il mio passato non più solo da camminatore abbandonato, ma da persona decisa a scrivere nuovi capitoli.

Negli anni successivi non ci furono pause particolarmente significative, riuscendo anche sbarcare nella loro Seattle e vedendoli dal vivo in più di un'occasione, inclusa un'epica performance triestina. E arriviamo all'epoca del covid. Senza grandi viaggi all'orizzonte, abbasso un po' il volume. Scopro la musica di Michael Schenker. Neil Young mi ricorda a cosa appartenga. I Pearl Jam tacciono e senza autentico desiderio, li lascio in silenzio. Qualcosa poi accade. Lì per lì, non me ne accorgo. Storia di un vagabondare colpito a morte. Storia di un mondo che non si può fermare, trovando comunque il modo di invocare un respiro interno. Sulla sabbia anche la minima traccia è stata spazzata via. La vita reclama un contatto. Mi basta un nanosecondo per capire. Per sentirli dentro. Quella sofferenza non se ne andrà più, e mi sta bene così...

SENTO IL TUO RESPIRO… TI PRENDO LA MANO

Dite che non vi conosco, o più semplicemente mi avete scambiato per uno che baratta le pietre con le rocce… Vorrei potervi dire di più sul mio futuro, ciò che hanno rivolto verso le sponde di un lago è più complicato di una lacrima da tramandare mi sono girato un attimo, e com’è che non mi fossi accorto che stavi già piangendo?... mi sono distratto un secondo dalle lamentele del mio presente, e ho preso contatto con il tuo dolore Dite che ci conosciamo, dite che ci possiamo fidare l’uno degli altri…Dite che la fine del mondo ha perduto i suoi remi... In che modo l’acqua delle onde si allontanerà dalle angosce più riconoscibili… Sai che questo intervallo della nostra vita non ha mai accettato l’idea che ci siano delle porte? ... Non sarà così… Non accadrà mai fin dalla prossima prima pagina, forma finale o quel tipo di eternità

(Venezia, 17 Maggio ‘22)

Pearl Jam, Sirens

Il chitarrista Stone Gossard nel video Sirens (Pearl Jam)

lunedì 27 dicembre 2021

Pearl Jam, la danza del chiaroveggenti

I Pearl Jam 

Ho aspettato più di un anno e mezzo per ascoltare Gigaton (2020), l'11° album dei Pearl Jam. Ed ecco subito Dance of the Clairvoyant ispirare un nuovo sentiero compositivo.

di Luca Ferrari

No, non mi era ancora mai capitato. Non mi era mai capitata "una cosa così", con "loro": i Pearl Jam, la band che ha sempre accompagnato la mia vita. Da quando ho memoria dei rocker di Seattle, quanto mai avrò aspettato prima di ascoltare un loro nuovo disco? Forse una settimana, non di più, incluso il penultimo Lightning Bolt (2013). Questa volta invece, sono trascorsi un anno e nove mesi. Un'eternità! Non ero pronto. Non ne avevo voglia. Non ero mensilmente connessi. Gigaton è sbarcato in Italia il 27 marzo 2020, oggi invece è il 27 dicembre 2021 e lo sto ascoltando da neanche un giorno. Mi è bastato un ascolto ed ecco subito "trovare" un'emozione in perfetta sintonia umano-sonora per mettermi alla tastiera e scrivere qualcosa di impetuoso e imprevisto.

Rewind. Uscito l'11° album dei Pearl Jam, il mondo dei social si scatena subito. Follower della pagina Facebook di pearljamonline.it, inizio a leggere commenti: si va dal cieco entusiasmo a chi consiglia la pensione alla band di Seattle. Tirando un po' le somme, non mi aspettavo granché ma fin dal primo ascolto resto piacevolmente colpito, e soprattutto mi faccio una domanda: che cosa si può chiedere a una band in pista da trent'anni, capace di sfornare album e canzoni capolavoro, sfuggire a qualsiasi etichetta riuscendo sempre a mantenere un'integrità artistica (quasi) unica? Se nel 2021 vedessi un Vedder scimmiottare il se stesso con lyrics e atteggiamenti "young", allora sì che mi sentirei deluso.

Ascolto il disco. Nessun album mi ha mai conquistato dal primo ascolto, nemmeno quelli che adoro alla follia come Vitalogy (1994), restando in casa Pearl Jam, o In Utero (1993) dei Nirvana che per qualità testi è 100 spanne superiore a Nevermind. Tornando a Gigaton, alcune mi canzoni mi entrano subito in circolo, altre le dovrò ascoltare ancora! Le ultime mi sembrano molto influenzate dalla direzione solista del cantante, che per quanto non mi faccia impazzire, ha una sua logica. Ricordo commenti poco lusinghieri quando uscì No Code (1996), oggi uno degli album più amati. Inizio il secondo ascolto. La nuova musica dei Pearl Jam inizia a muoversi dentro di me. Il resto è il presente più istintivamente "creato"...


INSIEME... CASO PER CASA


L'angolo allargato... ricettatori

di sproloqui, assassini d'ironia giocattolaia... è bastata una parola,

un’immagine… un calore

che hanno dato via… lo sto guardando, ed è la sua vita,

è la sua ambientazione umana

... sono i suoi occhi,

zolle che non dovrebbero mai regolamentarsi Non li chiama mai per nome, tutto è subito mutato in un infinito legame vero previsioni… interpretazioni… uno st(r)ato

di perfezione da controllare... lo staranno

davvero pensando?

Avreste mai sussurrato

le medesime traduzioni

al più piccolo ricordo di voi stessi?

c’è una roccia in mezzo al mare,

ci sono scie di energie e gocce che risalgono albe

... Scontri di domani impercettibili...

Una sola notte non dovrebbe essere

nemmeno accettabile… Vi ho mai

dato l’impressione

di aver scelto un unico colore

per le pagine

del mio libro di non-ricordi? Di

quanto torti mi sarei macchiato

se non avessi dato la priorità

a ogni nuova sorgente di vita...

(Padova/Venezia, 25-26 Dicembre ‘21)

Pearl Jam - Dance of the Clairvoyants

domenica 6 luglio 2014

State of Love and Pearl Jam

Trieste, il cantante Eddie Vedder (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Da Seattle all'Italia. Quasi 3 ore di concerto davanti a un pubblico di oltre 30.000 persone. A Trieste i Pearl Jam hanno fatto furore.

di Luca Ferrari

“...E di queste strade passate senza indicazioni non mi so dare spiegazioni/... Quello in cui credevo è ancora un letto intatto con il contorno a carboncino di una casa dove  una solitaria e rumorosa comunicazione è una canzone del futuro inneggiante al presente...”. Il rock senza confini dei Pearl Jam è tornato in Italia. Venerdì 20 giugno a Milano, domenica 22 giugno a Trieste.

A quattro anni dall’ultima apparizione nel Belpaese, al Parco S. Giuliano di Mestre (Ve) in occasione dell’Heineken Jammin Festival, i Pearl Jam sono tornati in Italia per due tappe del primo tour europeo del loro 10 ° album in studio, Lightning Bolt (2013), facendo due trionfali show allo stadio milanese di San Siro e al Nereo Rocco del capoluogo friulano. Nessuna band di spalla. Solo i musicisti Eddie Vedder (chitarra/voce), Stone Gossard (chitarra), Jeff Ament (basso), Mike McCready (chitarra), Matt Cameron (batteria), e il tastierista Kenneth “Boom” Gaspar.

Trieste, 22 giugno 2014, è il giorno dei Pearl Jam. Internet rivela la scaletta delle date precedenti ma la band di Seattle si sa, non propone mai la stessa track list. Dopo una sonnolenta partita dei Mondiali trasmessa sul doppio maxi schermo e con nuvoloni sempre lì a provocare timori del sempre più numeroso pubblico che va via via riempendo lo stadio, quando non sono neanche le h. 21, la band prende posto sul palco.

“...è difficile sapere a cosa sto andando incontro/
a nessuno interessa il modo di disporre
sassi e cuscini… solo poche parole
mi sono venute in mente
senza aggiungere sottrazioni d’immaginazione/
Sto provando qualcosa di diverso
che non mi è mai appartenuto prima/... oggi
le dichiarazioni di dove sono stato
le potrò rivolgere a qualcuno”
                                                          l.f

A rompere il ghiaccio è la "Versussiana" Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, seguita dalla meno celebre Low Light (Yield) e quindi la sorpresa Black. Una delle canzone più amate dai fan di tutte le latitudini. Direttamente dal primo album Ten (1991). È poi il momento della fresca Sirens e con essa ecco irrompere alle spalle della band la copertina dell'album Lighting Bolt che rimarrà poi fino a fine concerto.

Dal presente al  passato. Doppio Vs. consecutivo e Vitalogy con Why Go e Animal prima, seguite da Corduroy. Siparietto di Eddie a parte con classico brindisi rivolto ai presenti, la band non perde tempo. Suona e basta. Sfodera le possenti Getaway e Got Some, quindi la “ledzeppeliana” Given to fly, la poca cantata Leatherman (b-side del singolo Given to Fly), e la nuova e omonima dell'album, Lightining Bolt. Segue il primo singolo del suddetto album, Mind your Manners. Un rock possente erede (forse un po' troppo) della Sucker dei Motorhead

Dal più recente presente alle origini di Deep, quindi la toccante Come Back. È il momento di Even Flow. A chiudere la prima parte del concerto altre sei canzoni. Le più tranquille Down, Unthought Known, Infallible, quindi l'adrenalina lottatrice di Whipping, Do the Evolution e Rearview mirror. Una prima parte da “penotti” (lacrimoni) come si dice in dialetto veneto.

“Si ripresenta la sopravvivenza...
Non ho alcuna intenzione di frapporre
oscurità... La strada è già lunga
e la conclusione non pretende mai sequenze
di chiusura/...  per troppo tempo l’acqua
si prese il demerito di tutto quello
che poteva ancora ingigantire una minima
caduta/... l’addio a un passo/… il bisogno di restare
dove fossi per fermarmi/…  a dispetto dei piedi rocciosi
che intralciano la tua corsa,
è un costante battersi dentro il cuore"
                                                                        l.f

Dopo una breve pausa iniziano le due sessioni di bis, Encore 1 ed Encore 2, rispettivamente di sette e cinque canzoni. Apre la poco conosciuta Let Me Sleep, segue Crown of Thorns, cover dei Mother Love Bone, la band di Stone e Jeff pre-Pearl Jam. È il turno della sempre commovente e dolorosa Jeremy, quindi State of Love and Trust, Wasted Reprise, Life Wasted e Porch. Nella lunga parte strumentale niente stage diving cone agli inizi per Eddie. Oggi il cantante originario di San Diego ha una moglie, due figlie e il prossimo 23 dicembre spegnerà 50 candeline.

“… Avevo appena iniziato un viaggio
senza sapere da che parte guardare
rispetto alle ombre del futuro/... Annullato
ogni riferimento di sguardi ravvicinati,
tutto doveva continuare
a essere inghiottito… Non feci nulla
per impedire che tutto ciò avvenisse, poi un giorno
decisi di dare una forma
al sangue spiaccicato sul vetro
più “promislandianamente” ravvicinato...
Non provai nemmeno a prendere fiato… Mi  girai
dall’altra parte
e oggi guardo davanti a me, potendo
prenderle la mano”                                                                                                        
                                     l.f

Ultimo break prima della cavalcata finale con in sequenza Once, Alive, Rockin’ in a Free World (cover di Neil Young) e Yellow Ledbetter... “È  stato come se le note si dovessero ancora presentare/... È  stato
come se tra le nuvole troppo ingombranti
ci fosse spazio per qualcosa
cui non si poteva né guadare
né lontanamente immaginare/… Poi semplicemente
qualcuno di più ha riconosciuto che l’amore 
di un antico ragazzo si è affacciato
sulla delicatezza della nostra storia ricongiunta”
                                                                                         l.f

Crown of Thorns, performance by Pearl Jam in Trieste

Trieste, il bassista Jeff Ament (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Trieste, il batterista Matt Cameron (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Trieste, il pubblico al concerto dei Pearl Jam © Simone Di Luca
Trieste, il cantante Eddie Vedder (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Trieste, il chitarrista Mike McCready (Pearl Jam) © Simone Di Luca
Trieste, il pubblico al concerto dei Pearl Jam © Simone Di Luca
Trieste, il chitarrista Stone Gossard (Pearl Jam) © Simone Di Luca

sabato 12 ottobre 2013

Pearl Jam, Let the Lightning Bolt Play

i Pearl Jam da Seattle





















Hanno ispirato vecchie e nuove generazioni. La rock band americana Pearl Jam ha realizzato il decimo album in studio: Lightning Bolt.

di Luca Ferrari

Da più di vent’anni accordano quel mondo che non ha mai voluto arrendersi. Lunedì 14 ottobre 2013 esce il disco Lightning Bolt (Monkeywrench Records/Republic Records), 10° album dei Pearl Jam. A parte il batterista Matt Cameron (in pianta stabile dal 1998) e il tastierista Kenneth Boom Gaspar con i PJ dal 2002, gli altri quattro membri della band sono gli stessi degli esordi: i due chitarristi Stone Gossard e Mike McCready, il bassiste Jeff Ament e il cantante Eddie Vedder.

"In questo nuovo lavoro è sempre più Eddie a fare la differenza, elevando buone canzoni a grandi canzoni (Sirens, Future Days, Getaway)" racconta in esclusiva per il magazine online Live on Two Hands l’esperto "pearljammer" trevigiano Omar Nizzetto, in prima fila lo scorso febbraio al live milanese dei Brad (il side project di Stone Gossard).

"Poi ci sono delle sorprese musicali in grado di, letteralmente, rapirti con un ritmo che non ti aspetteresti (Infallible, Pendulum e in parte anche Father’s Son e Let the records Play)" prosegue, "Per onestà intellettuale, resta un po’ di amaro in bocca pensando che magari avrebbero potuto osare di più su altri pezzi invece di giocare sul sicuro su buone ma convenzionali song (Lightining Bolt, Mind your Manners, Yellow Moon)”.

Una carriera ormai più che ventennale quella dei Pearl Jam. Canzoni che sanno sempre emozionare (anche il peggior disco dei Pearl Jam è un raggio di luce in questa ormai decennale grigia depressione musicale, sottolinea deciso Omar). Un sound e uno spessore impermeabili a qualsiasi moda o presunta tale. Una solidità umana e una coscienza sociale degna erede dei vari Bob Dylan, Patty Smith, Bruce Springsteen, etc.

Sotto la sapiente e veterana produzione dell’onnipresente Brendan O’Brien, la band, formatasi nella Seattle dei primi anni Novanta, con l'album Lightning Bolt ha raggiunto la doppia cifra in studio. "L’attesa per un imminente nuovo album dei Pearl Jam è simile solo a quella che da bambino provavi sapendo che il giorno dopo saresti salito nella tua giostra preferita al lunapark” sottolinea Omar, "È la sensazione del giorno prima della festa, che a volte si rivelava più carica d’emozione che la festa stessa.

Ascoltare le prime note di un loro nuovo disco è come quell’attimo in cui l’energia alimentava la giostra e l’adrenalina ti coglieva in pieno. Ascoltare il resto del disco è stato come proseguire lungo le rotaie della giostra. Tra salite e discese, giri della morte e attese prima di ricominciare tutto daccapo. Ascoltare Lightning Bolt per la prima volta è stato tutto questo. Nuovamente".

Dodici le canzoni del nuovo album dei Pearl Jam, Lightning Bolt (2013):

01 Gateaway (3:26) – Chiamatela deformazione professionale, ma prima ancora che partano le note dell’inizio di Lightning Bolt, il titolo della prima canzone mi rimanda a vent’anni esatti fa. Alle lyrics di Scentless Apprentice (In Utero 2003) dei Nirvana dove Kurt Cobain siglava il suo marchio di fabbrica con semplici giochi di parole: get away (va via), get a way (scegli una strada). Inizio l’ascolto. Il ritmo sa di festa tra amici. Il basso di Jeff Ament scorre pulito. La voce di Eddie si alterna tra corse moderate e andature più lente. Ma questa non è una materia per scattisti. È una maratona e siamo appena all’inizio. Un lungo percorso dove ho il mio modo di credere  (I’ve got my own way to believe). Una strada infinita dove talvolta bisogna mettere tutta la propria fede nella non fede (Sometimes you find yourself having to put all your faith in no faith).

02 Mind Your Manners (2:38) – Il primo singolo e dunque già conosciuto. Confesso che mi entusiasmò poco. Song standard con fin troppo facili reminiscenze alla Spin the Black Circle, canzone quest’ultima vincitrice di un Grammy Award nel 1996. Un testo che pare attingere ancora dall’interiorità più riottosa non solo di Eddie, ma dell’intera band. Finale che più rock non si potrebbe. E già s’immagina uno stage diving di tutto rispetto. "Non sarà più tempo per i capolavori" annuisce Omar Nizzetto, "ma da questi cinque ragazzi ci si potrà attendere sempre e comunque il meglio"

03 My Father’s Son (3:07) – Il figlio di mio padre. Devo ancora ascoltarla ma con un titolo così me la immagino alla Daughter. Sarà così? Non resta che scoprirlo… Previsione del tutto errara. Il ritmo è decisamente più veloce rispetto alla terza canzone di Vs (1993). Qualche reflusso alla MFC (Yield). Il testo è profondo. Segreti, rancori e sofferenze. “Cannot forget you’re hiding collected wounds left unhealed/, When every thought you’re thinking sinks you darker than the new moon sky,/ The faraway lights rising in the whites of your eyes… Non posso dimenticare che hai nascosto ferrite lasciate senza cura/ Quando ogni pensiero che avevi ti faceva affondare nell’oscurità più nera del cielo senza luna/ Le luci lontane si stanno risvegliando nel bianco dei tuoi occhi”. Un finale con la chitarra di Mike che da come l’impressione di aver ancora molta energia da condividere.

04 Sirens (5:41) – L’altra canzone già nota, ribattezzata la I am Mine di questa nuova decade e facilmente riconducibile a essa anche per la somiglianza del video (e della chioma del singer, più corta però all’epoca di Riot Act, 2002). La track più lunga dell’album. Prendano nota i rocker più romantici perché qui c’è una farse da trascrivere a penna su una lettera e consegnare alla propria amata: “For every choice, mistake I made, is not my plan/ To see you in the arms of another man/ And if you choose to stay, I’ll wait, I’ll understand – Per ogni scelta, errore che ho fatto, non era nei mie piani di vederti tra le braccia di un altro uomo/ E se decidi di restare, aspetterò. Capirò”. Non riesco a non pensare che tra le parole finali della prima strofa, “But all things change, let this remain – Ma tutto cambia, lascia che questo rimanga”, la dichiarazione d’amore non sia solo quella tra due persone, ma da una band a se stessa. Una dolce auto-dedica che in molti condivideranno.

Pearl Jam, il video di Sirens
• 05 Lightning Bolt (4:13) – Tocca alla canzone che da il nome all’album, dualismo questo di cui non sono un grande fan. Un coro di chitarre dove già vedo Stone e Mike andare su e giù per il palco strizzando l’occhio a Ron (Wood) e Keith (Richards), scambiandosi di posto. Una canzone da sentire e cantare live assolutamente. 
 
06 Infallible (5:22) – Inizio alla Tremor Christ (Vitalogy, 1994). Miscela sonora anomala per i Pearl Jam. Lascio la testa viaggiare. Abbandono il tappeto di parole su cui continuo a correre. Anche se sono solo a metà tragitto, non mi pare di aver mai iniziato ed essere ancora davanti a uno stereo con la cassetta che gira. Senza nemmeno mezzo pensiero sul tempo che passa. Con l’assolo quasi finale ho la certezza di un’ombra seduta vicino a me. Silenziosa e piangente di commozione.

07 Pendulum (3:44) –“We are here and then we go/ my shadow left me long ago – Siamo qui e poi ce ne andiamo/ La mia ombra mi ha abbandonato molto tempo fa”. Ritmo più lento. Oscuro. Un viaggio sonoro senza superflui caratteri alfabetici e dove, se mai esistesse ancora qualcosa che non è come sembra, adesso è arrivato il tempo di confrontarsi. “I'm in the fire but I'm still cold – sono il fuoco ma ho ancora freddo” sussurra ad alta voce Eddie Vedder. Poi il tambureggiare di Matt Cameron semplicemente dice basta, e tutti eseguono. In silenzio.  Ad anime (sicuramente) unite.

08 Swallowed Whole (3:51) – Echi REMiani in questa nuova canzone. Boulevard aperti dove le finestre si aprono per recitare una preghiera zen, buddista o per ricollegarsi a ciò che si diceva all’inizio, a ciò in cui si crede. “I could choose a path, I could choose the word/ I could be the sun, I could be the sound/– Potrei scegliere un sentiero, Potrei scecgliere una parola… Potrei essere il sole, Potrei essere il suono”. Consigliabile da ascoltare con le luci plumbee di un’alba invernale.

09 Let the Records Play (3:46) – Ritmo incalzante e altra song dalla decisa propensione live. Se i Pearl Jam volevano dirci qualcosa, quel “I’ve been off but but I'm on my feet, my feet again – Sono stato lontano ma sono di nuovo sui miei piedi” è quanto di più genuinamente combattivo possa ergersi dalla loro monumentale normalità. O normale saggezza, chiamatela come vi pare.

10 Sleeping By Myself (3:04) – Per onestà di cronaca, è la prima che rimetto ad ascoltare. C’è qualcosa di “alatamente” poetico che mi sfugge. Esplode il tema dell’incertezza. “Forever be sad and lonely/ Forever never be the same/ Oh I close my eyes and wait for a sign/ Am I just waiting in vain? – Per sempre  triste e solo/ Per sempre mai lo stesso/ Oh, chiudo gli occhi e aspetto un segnale/ Sto aspettando invano?”. Per quelli che di Generazione X non volevano più sentir parlare, adesso si devono confrontare ogni giorno con qualcosa di ancor peggiore. Senza filastrocche da canticchiare sulla spiaggia. Ma no, non può finire così. Una rock lullalby per credere che si possa fare ricominciando da sé. “I’m beginning to see/ What's left of me is gonna have to be free to survive – Sto cominciando a scoprire/ Ciò che è rimasto di me sarà libero di sopravvivere”. Forse oggi ci meritiamo qualcosa di più della sopravvivenza ma è innegabile che tutto possa (ri)cominciare lasciandoci andare a un sogno. Chiudendo gli occhi. 

11 Yellow Moon (3:52) – La sofferenza non fa parte solo dei nostri specchietti retrovisori. Eddie Vedder prende fiato e non ancora pago dell’ispirazione del film Into the Wild, ritorna con un inno naturalista dove è impossibile distinguere tra stelle cadenti e ricordi/accordi. C’è una battaglia interiore da cui non si scappa. Qui, sotto la Luna, l’eco non è solo una voce uguale alle nostre parole. Un consiglio alla band: quando la suonerete in concerto, invitate Neil Young sul palco a metterci del suo.

12 Future Days (4.22) – E siamo alla fine. Si comincia con le delicate note di un piano e anche in questo caso preparino i fazzoletti i più sensibili. “If I ever were to lose you/ I’d surely lose myself/ Everything I have dear/ I’ve not found by myself – Se dovessi perderti/ Perderei sicuramente anche me stesso/ Tutto ciò che ho di più caro/ Non l’ho trovato da me”. Una canzone perfetta per chiudere un concerto. E ricominciare. Con l’accendino alzato per illuminare l’oscurità e ripetere tutti insieme “I believe and I believe ‘cause I can see/ Our future days, days of you and me – Io credo, io credo perché posso vedere i nostri giorni futuri, i giorni di te/voi e me”.

i nostri giorni futuri, i giorni di te e me... 

Pearl Jam (da sx): Mike McCready, Boom Gaspard, Matt Cameron, Eddie Vedder,
Jeff Ament e Stone Gossard

lunedì 15 luglio 2013

Mind Your Pearl Jam

Pearl Jam, il singolo Mind your manners (Lightning Bolt)
Preceduto dal singolo Mind Your Manners, esce lunedì 14 ottobre Lightning Bolt, il decimo album della rock band americana, Pearl Jam.


Tornano i Pearl Jam con un nuovo album, Lightning Bolt (2013, Monkeywrench Records). In attesa che la band faccia conoscere il nuovo disco dal vivo anche nel vecchio continente, è già stato annunciato un tour nordamericano che partirà venerdì 11 ottobre a Pittsburgh e si concluderà a “casa”, venerdì 6 dicembre a  Seattle.

Ma perché nell’epoca della cultura omologata e reality show si dovrebbe ancora voler ascoltare una band nata nei primissimi anni ’90? Ecco dieci valide risposte/ragioni:

1) Testi: Eddie Vedder è un paroliere eccezionale. Ha una profondità non comune. Ma non c’è solo lui. Le lyrics della band portano i nomi anche degli altri membri, a cominciare dal chitarrista Stone Gossard e il batterista Matt Cameron.

2) Musica: possono piacere o meno, ma è indubbio che siano tutti degli ottimi musicisti (a detta degli stessi colleghi non loro ammiratori). La sezione ritmica di Jeff & Matt è impeccabile. Le chitarre di Stone & Mike si completano. La voce e il carisma di Eddie chiudono il cerchio perfetto.

3) Live: la loro dimensione dal vivo è più unica che rara. Nessun effetto speciale. Solo loro, la musica e il pubblico. Sono ancora e sempre di più la band globale della porta accanto.

4) Forza: vennero dati per morti dopo il tragico suicidio di Kurt Cobain (1994) prima, e dopo la tragedia di Roskilde (2000) poi. Hanno sempre reagito con la normalità della poesia più visceralmente e reattivamente musicale.

5) It’s Evolution, baby: la storia dei Pearl Jam è la storia di molti di noi. Nei loro testi si delinea la crescita non solo artistica, ma anche e soprattutto come esseri umani.

6) Indipendenza: quando la band aveva pochissimi anni di vita, ha sfidato la potentissima Ticketmaster per far abbassare i prezzi di biglietti, senza dimenticarsi di cosa significa avere 20 anni e non poter andare a vedere un concerto. Nell’epoca dell’esplosione di MTV non hanno più fatto video, andandosene per la loro strada. Hanno suonato contro George W. Bush a New York pochi anni dopo il crollo delle Torri Gemelle beccandosi fischi e vedendo gente disertare l’arena. Non si sono fatti intimidire e hanno proseguito.

7) Arte: a partire da Vitalogy (1994) ogni cd ha assunto le sembianze di un vinile (amatissimo dalla band). L’art work viene spesso realizzato dall’esperto Jeff Ament. Una vera manna rispetto alla spettrale desolazione degli mp3.

8) Eterogeneità: tutti hanno portato avanti progetti paralleli. Matt Cameron ha addirittura ripreso posto nei tamburi dei Soundgarden, ma questo non ha minimamente intaccato la coesione e l’alchimia della band.

9) Temple of The Dog: con Matt ai tamburi, è probabile che presto o tardi divideranno un tour con i Soundgarden e sarà inevitabile che Chris Cornell si unisca a loro sul palco per suonare qualche pezzo dei Temple of the Dog, in eternal memory of Andy Wood.

10) Amiciza: di loro e di noi. Sono poche le band rimaste sempre le stesse da oltre vent'anni senza essersi mai prese pause. Dopo Dave Abbruzzese, alla batteria dei PJ si sono seduti Jack Irons (amico della band) e dal 1998 è subentrato in pianta stabile Matt Cameron, che li ha visti crescere. Per il resto sono sempre stati loro: Mike McCready, Eddie Vedder, Stone Gossard e Jeff Ament. Sono una famiglia. Un valore che si trasmette anche ai fan. Non si può essere fan dei Pearl Jam senza condividerne le battaglie e/o i valori. O meglio, si può ma non è la stessa cosa.

E se ancor oggi ti capita di avere la pelle d'oca anche solo guardando l’oceano di notte, non sarà difficile che le prime immagini che ti passino nella mente e nell'anima siano quelle di una loro canzone ascoltata insieme a una persona speciale. O anche da soli ma comunque veri... The ocean is full cause everyone's crying/ The full moon is looking for friends at hightide/ The sorrow grows bigger when the sorrow's denied/ I only know my mind/ I am mine

La storia continua.

Pearl Jam (da sx): Mike McCready, Jeff Ament, Matt Cameron,
Eddie Vedder e Stone Gossard
Atmosfera alla Hunger Strike sulla spiaggia di La Push (Wa, USA) © Luca Ferrari
La Push (Wa, USA) © Luca Ferrari

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