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Visualizzazione post con etichetta Sirens. Mostra tutti i post
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martedì 17 maggio 2022

Sirens, il richiamo dei Pearl Jam

Il cantante Eddie Vedder nel video Sirens (Pearl Jam)

In quasi trent'anni di ascolto dei Pearl Jam, mi sono allontanato dalla loro musica in più occasioni. Oggi, grazie a un imprevisto e sofferente ascolto di Sirens, ho sinceramente ricominciato.

di Luca Ferrari

Il mio primo grande distacco dalla musica dei Pearl Jam avvenne durante l'estate del 1998. All'epoca venivo da tre anni vissuti più intensamente che mai al loro fianco, alternandoli in modo profondamente totalizzante alla poesia dei Nirvana e la saggezza distorta di Neil Young, e passando anche per quell'epico e mio primo concerto del 12 novembre 1996 a Roma. Uscito Yield, con tanto di primo ascolto solitario davanti al mare su compact disco portatile, il mondo stava cambiando a una velocità a cui non riuscivo più a stargli dietro, e la loro musica, in qualche modo, fu l'emblema di tutta quella poesia che non trovava una direzione. Come avrebbero detto i diretti interessati agli esordi "All the love gone bad, turned my world to black"..

Musicalmente iniziai a prendere direzioni diverse: Garbage, Skunk Anansie e in particolare si consolidò il rapporto con Marilyn Manson, anche lì reso immortale da un concerto vissuto in condizioni umane molto difficili (per non dire impossibili) alla fine di quello stesso estenuante anno. Nel 2000 i Pearl Jam vennero a suonare in Italia ma io non mi sentivo più in sintonia con loro, e dopo aver acquistato il biglietto per l'Arena di Verona, lo vendetti. Sì, avete letto bene! Intanto però il destino era dietro l'angolo, e partito per il mio primo stage di lavoro, senza saperlo, una mia compagna di viaggio originaria di Vercelli, era una fan sfegatata dei PJ e dei suoi carissimi amici avevano formato una cover band: i NOD (Not Ordinary Dogs).

Fu grazie a questi ultimi che il sound di Seattle tornò prepotentemente a miscelare ogni emozione artistico-umana nella mia vita. Seguì un periodo di ascolto molto intenso, consolidatosi in modo devastante nel 2003 nel pieno della mia vita fiorentina. Il secondo distacco, avvenne verso il 2004-05, ed era come se ogni volta che la mia vita non sapesse riprendersi, la loro musica ne pagasse il prezzo. O forse, la volevo preservare, non lo so. Questa volta però, la ripresa fu scandita proprio da un loro album, Pearl Jam (2006), con il quale tra l'altro riscrissi una fetta della mia vita iniziando a correre, e rivedendo il mio passato non più solo da camminatore abbandonato, ma da persona decisa a scrivere nuovi capitoli.

Negli anni successivi non ci furono pause particolarmente significative, riuscendo anche sbarcare nella loro Seattle e vedendoli dal vivo in più di un'occasione, inclusa un'epica performance triestina. E arriviamo all'epoca del covid. Senza grandi viaggi all'orizzonte, abbasso un po' il volume. Scopro la musica di Michael Schenker. Neil Young mi ricorda a cosa appartenga. I Pearl Jam tacciono e senza autentico desiderio, li lascio in silenzio. Qualcosa poi accade. Lì per lì, non me ne accorgo. Storia di un vagabondare colpito a morte. Storia di un mondo che non si può fermare, trovando comunque il modo di invocare un respiro interno. Sulla sabbia anche la minima traccia è stata spazzata via. La vita reclama un contatto. Mi basta un nanosecondo per capire. Per sentirli dentro. Quella sofferenza non se ne andrà più, e mi sta bene così...

SENTO IL TUO RESPIRO… TI PRENDO LA MANO

Dite che non vi conosco, o più semplicemente mi avete scambiato per uno che baratta le pietre con le rocce… Vorrei potervi dire di più sul mio futuro, ciò che hanno rivolto verso le sponde di un lago è più complicato di una lacrima da tramandare mi sono girato un attimo, e com’è che non mi fossi accorto che stavi già piangendo?... mi sono distratto un secondo dalle lamentele del mio presente, e ho preso contatto con il tuo dolore Dite che ci conosciamo, dite che ci possiamo fidare l’uno degli altri…Dite che la fine del mondo ha perduto i suoi remi... In che modo l’acqua delle onde si allontanerà dalle angosce più riconoscibili… Sai che questo intervallo della nostra vita non ha mai accettato l’idea che ci siano delle porte? ... Non sarà così… Non accadrà mai fin dalla prossima prima pagina, forma finale o quel tipo di eternità

(Venezia, 17 Maggio ‘22)

Pearl Jam, Sirens

Il chitarrista Stone Gossard nel video Sirens (Pearl Jam)

sabato 12 ottobre 2013

Pearl Jam, Let the Lightning Bolt Play

i Pearl Jam da Seattle





















Hanno ispirato vecchie e nuove generazioni. La rock band americana Pearl Jam ha realizzato il decimo album in studio: Lightning Bolt.

di Luca Ferrari

Da più di vent’anni accordano quel mondo che non ha mai voluto arrendersi. Lunedì 14 ottobre 2013 esce il disco Lightning Bolt (Monkeywrench Records/Republic Records), 10° album dei Pearl Jam. A parte il batterista Matt Cameron (in pianta stabile dal 1998) e il tastierista Kenneth Boom Gaspar con i PJ dal 2002, gli altri quattro membri della band sono gli stessi degli esordi: i due chitarristi Stone Gossard e Mike McCready, il bassiste Jeff Ament e il cantante Eddie Vedder.

"In questo nuovo lavoro è sempre più Eddie a fare la differenza, elevando buone canzoni a grandi canzoni (Sirens, Future Days, Getaway)" racconta in esclusiva per il magazine online Live on Two Hands l’esperto "pearljammer" trevigiano Omar Nizzetto, in prima fila lo scorso febbraio al live milanese dei Brad (il side project di Stone Gossard).

"Poi ci sono delle sorprese musicali in grado di, letteralmente, rapirti con un ritmo che non ti aspetteresti (Infallible, Pendulum e in parte anche Father’s Son e Let the records Play)" prosegue, "Per onestà intellettuale, resta un po’ di amaro in bocca pensando che magari avrebbero potuto osare di più su altri pezzi invece di giocare sul sicuro su buone ma convenzionali song (Lightining Bolt, Mind your Manners, Yellow Moon)”.

Una carriera ormai più che ventennale quella dei Pearl Jam. Canzoni che sanno sempre emozionare (anche il peggior disco dei Pearl Jam è un raggio di luce in questa ormai decennale grigia depressione musicale, sottolinea deciso Omar). Un sound e uno spessore impermeabili a qualsiasi moda o presunta tale. Una solidità umana e una coscienza sociale degna erede dei vari Bob Dylan, Patty Smith, Bruce Springsteen, etc.

Sotto la sapiente e veterana produzione dell’onnipresente Brendan O’Brien, la band, formatasi nella Seattle dei primi anni Novanta, con l'album Lightning Bolt ha raggiunto la doppia cifra in studio. "L’attesa per un imminente nuovo album dei Pearl Jam è simile solo a quella che da bambino provavi sapendo che il giorno dopo saresti salito nella tua giostra preferita al lunapark” sottolinea Omar, "È la sensazione del giorno prima della festa, che a volte si rivelava più carica d’emozione che la festa stessa.

Ascoltare le prime note di un loro nuovo disco è come quell’attimo in cui l’energia alimentava la giostra e l’adrenalina ti coglieva in pieno. Ascoltare il resto del disco è stato come proseguire lungo le rotaie della giostra. Tra salite e discese, giri della morte e attese prima di ricominciare tutto daccapo. Ascoltare Lightning Bolt per la prima volta è stato tutto questo. Nuovamente".

Dodici le canzoni del nuovo album dei Pearl Jam, Lightning Bolt (2013):

01 Gateaway (3:26) – Chiamatela deformazione professionale, ma prima ancora che partano le note dell’inizio di Lightning Bolt, il titolo della prima canzone mi rimanda a vent’anni esatti fa. Alle lyrics di Scentless Apprentice (In Utero 2003) dei Nirvana dove Kurt Cobain siglava il suo marchio di fabbrica con semplici giochi di parole: get away (va via), get a way (scegli una strada). Inizio l’ascolto. Il ritmo sa di festa tra amici. Il basso di Jeff Ament scorre pulito. La voce di Eddie si alterna tra corse moderate e andature più lente. Ma questa non è una materia per scattisti. È una maratona e siamo appena all’inizio. Un lungo percorso dove ho il mio modo di credere  (I’ve got my own way to believe). Una strada infinita dove talvolta bisogna mettere tutta la propria fede nella non fede (Sometimes you find yourself having to put all your faith in no faith).

02 Mind Your Manners (2:38) – Il primo singolo e dunque già conosciuto. Confesso che mi entusiasmò poco. Song standard con fin troppo facili reminiscenze alla Spin the Black Circle, canzone quest’ultima vincitrice di un Grammy Award nel 1996. Un testo che pare attingere ancora dall’interiorità più riottosa non solo di Eddie, ma dell’intera band. Finale che più rock non si potrebbe. E già s’immagina uno stage diving di tutto rispetto. "Non sarà più tempo per i capolavori" annuisce Omar Nizzetto, "ma da questi cinque ragazzi ci si potrà attendere sempre e comunque il meglio"

03 My Father’s Son (3:07) – Il figlio di mio padre. Devo ancora ascoltarla ma con un titolo così me la immagino alla Daughter. Sarà così? Non resta che scoprirlo… Previsione del tutto errara. Il ritmo è decisamente più veloce rispetto alla terza canzone di Vs (1993). Qualche reflusso alla MFC (Yield). Il testo è profondo. Segreti, rancori e sofferenze. “Cannot forget you’re hiding collected wounds left unhealed/, When every thought you’re thinking sinks you darker than the new moon sky,/ The faraway lights rising in the whites of your eyes… Non posso dimenticare che hai nascosto ferrite lasciate senza cura/ Quando ogni pensiero che avevi ti faceva affondare nell’oscurità più nera del cielo senza luna/ Le luci lontane si stanno risvegliando nel bianco dei tuoi occhi”. Un finale con la chitarra di Mike che da come l’impressione di aver ancora molta energia da condividere.

04 Sirens (5:41) – L’altra canzone già nota, ribattezzata la I am Mine di questa nuova decade e facilmente riconducibile a essa anche per la somiglianza del video (e della chioma del singer, più corta però all’epoca di Riot Act, 2002). La track più lunga dell’album. Prendano nota i rocker più romantici perché qui c’è una farse da trascrivere a penna su una lettera e consegnare alla propria amata: “For every choice, mistake I made, is not my plan/ To see you in the arms of another man/ And if you choose to stay, I’ll wait, I’ll understand – Per ogni scelta, errore che ho fatto, non era nei mie piani di vederti tra le braccia di un altro uomo/ E se decidi di restare, aspetterò. Capirò”. Non riesco a non pensare che tra le parole finali della prima strofa, “But all things change, let this remain – Ma tutto cambia, lascia che questo rimanga”, la dichiarazione d’amore non sia solo quella tra due persone, ma da una band a se stessa. Una dolce auto-dedica che in molti condivideranno.

Pearl Jam, il video di Sirens
• 05 Lightning Bolt (4:13) – Tocca alla canzone che da il nome all’album, dualismo questo di cui non sono un grande fan. Un coro di chitarre dove già vedo Stone e Mike andare su e giù per il palco strizzando l’occhio a Ron (Wood) e Keith (Richards), scambiandosi di posto. Una canzone da sentire e cantare live assolutamente. 
 
06 Infallible (5:22) – Inizio alla Tremor Christ (Vitalogy, 1994). Miscela sonora anomala per i Pearl Jam. Lascio la testa viaggiare. Abbandono il tappeto di parole su cui continuo a correre. Anche se sono solo a metà tragitto, non mi pare di aver mai iniziato ed essere ancora davanti a uno stereo con la cassetta che gira. Senza nemmeno mezzo pensiero sul tempo che passa. Con l’assolo quasi finale ho la certezza di un’ombra seduta vicino a me. Silenziosa e piangente di commozione.

07 Pendulum (3:44) –“We are here and then we go/ my shadow left me long ago – Siamo qui e poi ce ne andiamo/ La mia ombra mi ha abbandonato molto tempo fa”. Ritmo più lento. Oscuro. Un viaggio sonoro senza superflui caratteri alfabetici e dove, se mai esistesse ancora qualcosa che non è come sembra, adesso è arrivato il tempo di confrontarsi. “I'm in the fire but I'm still cold – sono il fuoco ma ho ancora freddo” sussurra ad alta voce Eddie Vedder. Poi il tambureggiare di Matt Cameron semplicemente dice basta, e tutti eseguono. In silenzio.  Ad anime (sicuramente) unite.

08 Swallowed Whole (3:51) – Echi REMiani in questa nuova canzone. Boulevard aperti dove le finestre si aprono per recitare una preghiera zen, buddista o per ricollegarsi a ciò che si diceva all’inizio, a ciò in cui si crede. “I could choose a path, I could choose the word/ I could be the sun, I could be the sound/– Potrei scegliere un sentiero, Potrei scecgliere una parola… Potrei essere il sole, Potrei essere il suono”. Consigliabile da ascoltare con le luci plumbee di un’alba invernale.

09 Let the Records Play (3:46) – Ritmo incalzante e altra song dalla decisa propensione live. Se i Pearl Jam volevano dirci qualcosa, quel “I’ve been off but but I'm on my feet, my feet again – Sono stato lontano ma sono di nuovo sui miei piedi” è quanto di più genuinamente combattivo possa ergersi dalla loro monumentale normalità. O normale saggezza, chiamatela come vi pare.

10 Sleeping By Myself (3:04) – Per onestà di cronaca, è la prima che rimetto ad ascoltare. C’è qualcosa di “alatamente” poetico che mi sfugge. Esplode il tema dell’incertezza. “Forever be sad and lonely/ Forever never be the same/ Oh I close my eyes and wait for a sign/ Am I just waiting in vain? – Per sempre  triste e solo/ Per sempre mai lo stesso/ Oh, chiudo gli occhi e aspetto un segnale/ Sto aspettando invano?”. Per quelli che di Generazione X non volevano più sentir parlare, adesso si devono confrontare ogni giorno con qualcosa di ancor peggiore. Senza filastrocche da canticchiare sulla spiaggia. Ma no, non può finire così. Una rock lullalby per credere che si possa fare ricominciando da sé. “I’m beginning to see/ What's left of me is gonna have to be free to survive – Sto cominciando a scoprire/ Ciò che è rimasto di me sarà libero di sopravvivere”. Forse oggi ci meritiamo qualcosa di più della sopravvivenza ma è innegabile che tutto possa (ri)cominciare lasciandoci andare a un sogno. Chiudendo gli occhi. 

11 Yellow Moon (3:52) – La sofferenza non fa parte solo dei nostri specchietti retrovisori. Eddie Vedder prende fiato e non ancora pago dell’ispirazione del film Into the Wild, ritorna con un inno naturalista dove è impossibile distinguere tra stelle cadenti e ricordi/accordi. C’è una battaglia interiore da cui non si scappa. Qui, sotto la Luna, l’eco non è solo una voce uguale alle nostre parole. Un consiglio alla band: quando la suonerete in concerto, invitate Neil Young sul palco a metterci del suo.

12 Future Days (4.22) – E siamo alla fine. Si comincia con le delicate note di un piano e anche in questo caso preparino i fazzoletti i più sensibili. “If I ever were to lose you/ I’d surely lose myself/ Everything I have dear/ I’ve not found by myself – Se dovessi perderti/ Perderei sicuramente anche me stesso/ Tutto ciò che ho di più caro/ Non l’ho trovato da me”. Una canzone perfetta per chiudere un concerto. E ricominciare. Con l’accendino alzato per illuminare l’oscurità e ripetere tutti insieme “I believe and I believe ‘cause I can see/ Our future days, days of you and me – Io credo, io credo perché posso vedere i nostri giorni futuri, i giorni di te/voi e me”.

i nostri giorni futuri, i giorni di te e me... 

Pearl Jam (da sx): Mike McCready, Boom Gaspard, Matt Cameron, Eddie Vedder,
Jeff Ament e Stone Gossard

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