Contessa sono le idee che lotteranno per sempre contro ogni ingiustizia sociale. Contessa sono quelle amicizie che sanno ancora intonare ricordi e speranze. RIP Paolo Pietrangeli!
Le lotte "rosse" di un tempo piangono Paolo Pietrangeli (Roma, 1945-2021), autore e interprete dell'immortale Contessa, riproposta e resa ancor più celebre dal cantautore emiliano Francesco Guccini e la band dei Modena City Ramblers. Il mio vissuto mi ha portato molto tardi a scoprire questa canzone, quando noi, figli di Repubbliche Marinare differenti, c'incontrammo nella 'ulla del Rinascimento. Ancora oggi ripensiamo a quei giorni, cantando decisi le strofe rivoluzionarie di Contessa in un presente dove magari andiamo tutti all'università, ma sul fronte dei diritti dei lavoratori abbiamo fatto decisivi balzi indietro.
"[...]ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato, nessuno più al mondo dev'essere sfruttato [...]", sono le belle parole di Contessa (1966), ben lungi dall'essere realizzate. A dispetto delle tantissime battaglie fatte per tutelare i lavoratori, l'Italia è come sempre una nazione tragicamente divisa, con categorie rappresentate e altre che nemmeno provano ad alzare la voce. E a dispetto di ciò in cui ancora molti credono, il 2021 non è più il tempo delle grandi manifestazioni. Protestare non significa ottenere. Ci si fa forza l'un l'altro, ma non si va da nessuna parte e i padroni fanno sempre più quello che vogliono.
"[...] Se il vento fischiava ora fischia più forte le idee di rivolta non sono mai morte; se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire [...]", e questa è una verità sacrosanta ma le idee non bastano per cambiare un mondo arrivato al punto dal demonizzare perfino il sacrosanto diritto di andare in ferie. Un mondo dove puoi evadere miliardi senza conseguenze, ma se sgarri pochi euro nella dichiarazione dei redditi, ti ritrovi con migliaia di euro da pagare. 45 anni dopo la nascita di Contessa, noi straccioni stiamo ancora più male di allora. A quel tempo almeno credevamo nel cambiamento, oggi non lo so proprio più...
SULL'ARGANO DELLE NOSTRE MANI VICINE
esproprio intellettuale,
capostipite e rivoluzionario
… c’era la fabbrica
e le miniere… ci sono le armi,
i campi elisi nemmeno menzionati
è più facile parlare di morale
o rispondere senza violenza...
sarebbe più persuasivo
spostare binari
o lasciare le nuvole dove
stanno?
Ma tu lo hai capito
in che direzione
ci sta travolgendo il mondo?
da qualche parte
so che c’è un’amica
che ogni giorno
ha voglia di confidare quei sogni grandiosi
a cui abbiamo appena
sussurrato la buona notte...
... e io almeno so
che da qualche parte del Pianeta
c’è un’amica
che ogni giorno
fa crescere una minuscola
e meravigliosa
porzione di mondo
assoluzione
di risposte… perché dovremmo ancora
lottare... perché non è tutto
già finito... Perché non dovremmo
più credere
alle vostre rassicurazioni
Lasciarsi andare,
e poi riapparire… lo hai fatto tu,
lo abbiamo fatto noi… Nel frastuono
di un fischio sempre più tenue,
il sorriso deciso
risveglia la pace riottosa...
(Venezia, 22-23 Novembre ‘21)
Rock, poesia e bagliori di un impensabile futuro. 25 anni fa i, il 12 novembre 1996 assistetti al mio primo concerto dei Pearl Jam, a Roma, per il tour del nuovo album, No Code.
Il rock autentico dei Pearl Jam, per la prima volta dal vivo! Questo è più di un ricordo. Ciò che sto scrivendo e leggerete, è molto di più di un reportage musicale. Qui c'è l'essenza di ciò che è stata la mia vita (e in parte lo è ancora). In questo articolo c'è l'anima vulnerabile di Luca Ferrari. Quel viaggio iniziò insieme alla mia inseparabile agenda e le parole sputate dentro, on the road. Proseguì sulle rotaie tra cassette e sigarette. Si affacciò nell'attesa di ore e ore fuori dai cancelli. Infine arrivarono loro! Infine arrivò il momento della grande musica on stage. Fresco dei miei fragili e sfiancanti vent'anni appena compiuti, il 12 novembre 1996 andai al Palaeur di Roma a vedere per la prima volta i Pearl Jam dal vivo.
E mo' come comincio? Come si fa scrivere il ricordo di un evento di una tale portata emotiva? Come si fa a tramandarlo senza rischiare di deragliare di brutto? Io ci provo. Ci provo, per me, e per chi avrà la voglia (e la pazienza) di leggerlo fino all'ultima riga. Sarà un viaggio autentico e sfibrante. Conteso da traumi adolescenziali e scritte rabbio-riottose protese verso un insperato futuro, il 12 novembre 1996 andai a Roma per assistere al mio primo concerto dei Pearl Jam. Esattamente venticinque anni fa, all'ora esatta in cui è stato pubblicato questo lungo articolo di memorie umano-musicali, mi trovavo già davanti ai cancelli del Palaeur. Un'attesa lunghissima per vedere una band che da allora non ha più smesso di accompagnare la mia esistenza.
Faccio una doverosa premessa. All'epoca, così come avrei fatto nei successivi anni fino al 2004 circa, avevo sempre con me un'agenda (diary), dove annotavo pensieri, frammenti di poesie, tutto quello che mi frullasse nella mente. Una sorta di social network privato, con la differenza che mai e poi mai lo avrei mai fatto leggere ad alcuna/o, se non in rare e privilegiate occasioni. L'agenda che in quel momento stavo scrivendo, venne ovviamente con me. Impossibile pensare di vivere una simile esperienza senza una base di atterraggio per i miei vorticosi pensieri. Preciso questo perché alcuni dettagli ve li narrerò proprio sulla base dell'inchiostro sgorgato dentro quello scrigno, ancora gelosamente conservato. No Code era il mio album. Per certi versi, più di tutti. Ten e Vs li avevo "digeriti" insieme. Vitalogy fu il primo disco dei Pearl Jam che comprai non appena uscì in una gelida e solitaria serata d'inverno (22 dicembre 1994), nella più autentica e sofferente mutazione umana-emotiva. Vitalogy definì il mio DNA interiore, spalancando le porte di un legame immortale con la band di Seattle, il tutto mentre la poetica tormentata di Kurt Cobain bruciava/brillava/stava esplodendo dentro di me. No Code uscì a fine agosto 1996, in un altro momento cruciale della mia vita. Fu l'album dell'ispirazione "NeilYounghesca". Fu l'album col quale ruppi definitivamente col passato, scegliendo l'ignoto. Fu l'album che mi accompagnò in una lotta furiosa e senza sosta tra demoni interiori e incessanti lacrime come ponte levatoio verso le verità che dovevo trovare e comprendere.
Prima di quel momento, a parte i video, una sola volta avevo visto i Pearl Jam in diretta. Dal vivo, alla cerimonia di premiazione dei Grammy Awards '96, dove si divisero (nella mia anima) con la dolcezza spendente di Mariah Carey. Le notizie all'epoca si leggevano solo sulle riviste musicali, o se si era davvero fortunati, beccando qualche servizio su MTV. Così, quando li vidi sul piccolo schermo, non potevo sapere che di lì a qualche mese me li sarei trovati davanti. Li vidi dal vivo davanti al mio piccolo schermo e rimasi colpito dalla loro atipica autenticità, ma allo stesso tempo mi confermarono tutto quello che avevo letto e immaginato. Un qualcosa che avrei vissuto in modo ancor più ravvicinato e intenso, parecchi anni dopo, quando da giornalista intervistai i Mudhoney.
Arrivò il giorno della partenza. Pur avendo due t-shirt dei Pearl Jam comprate nei mercatini di Bologna e del Lido di Venezia, al concerto decisi che avrei indossato ben altro. Dentro l'arena avrei sfoggiato una maglietta bianca a maniche corte con una foto gigante di Kurt Cobain e la scritta sotto: 1967-1994: The End of Rock. La scelta non fu casuale. Non solo rappresentava il mio fortissimo legame con il cantante dei Nirvana, ma quell'indumento veniva dagli Stati Uniti, comprata da uno dei rarissimi ex compagni di scuola che potevo chiamare amico, e che me la portò dal viaggio post Maturità da New York. Io al contrario non feci nulla. Pur superata la prova finale, non avevo nulla da festeggiare.
Il viaggio in treno in Intercity da Venezia a Roma, 6 ore circa, fu un continuo e incessante ascoltare canzoni, partendo com'era mia abitudine dall'emblematica Train of Consequences dei Megadeth, e via via restando sui binari dell'heavy metal, in particolare, con profonde incursioni nella poetica di New Adventures in Hi-Fi (1996), capolavoro degli R.E.M. uscito appena due mesi prima. E i Pearl Jam? Niente? Quando vado a un concerto ho sempre sentito naturale la necessità di ascoltare poco la band in oggetto, e naturalmente a livelli disumani dopo se il concerto si sia dimostrsto all'altezza. Il live romano dei Pearl Jam fu l'apoteosi di questa dinamica.
Passata la notte da parenti romani, mi presentai ai cancelli prestissimo, quando l'orologio non segnava neanche le otto del mattino, con scorte alimentari ridotte al minimo (beata folle gioventù), trovando subito un gruppetto di persone ai quali unirmi. Molto introverso, lentamente mi feci trascinare dal contesto. Distesi tutti per terra, in particolare strinsi amicizia con un ragazzo di San Marino col quale provammo a giocare/scommettere su cosa i Pearl Jam avrebbero scelto per aprire lo show. Per la cronaca sbagliai di pochissimo. Dissi Last Exit (Vitalogy), che la band eseguirà per seconda. Nell'attesa, riuscii perfino a rivedere mia cugina di secondo grado, giunta sul posto appositamente per salutarmi, e trovandomi, dopo un bel po' che non ci si vedeva, in totale mutazione "capellona".
Le ore passavano e la massa si fece sempre più massiccia. Il sole intanto picchiava duro e la mia testa, dopo ore e ore, iniziò a vacillare. Venni lentamente risucchiato dalla folla, perdendo davvero colpi, e a un certo punto temetti per il peggio. Perse le prime file, riuscii a entrare ma la situazione sembrò davvero compromessa. Il mal di testa era talmente forte che non riuscii neanche a vedere la band di spalla, i Fastbacks, facendo su e giù in bagno a lanciarmi secchiate d'acqua gelida per ammorbidirmi il cranio. Un dettaglio di nota. Una volta entrato, fui invitato (come tutti) a lasciare la mia borsa a tracolla con dentro anche la mia preziosa agenda, in una specie di magazzino aperto.
Finalmente arrivò il momento tanto atteso. Trovai posto nell'ampia platea vicino a un gruppetto di ragazze poco più giovani di me e con cui ogni tanto condivisi qualche emozione sonora. Il concerto iniziò e... e fu uno shock! La prima canzone, Release, non la seppi riconoscere. Avevo atteso quel momento da mesi e adesso non avevo nessuna parola nella testa da poter cantare. Lo ammetto, ci rimasi parecchio male, poi per fortuna arrivò il turno di Last Exit e iniziai a sciogliermi... e a pogare. Il concerto dei Pearl Jam per me iniziò in quel momento.
Ricordo ancora, e bene, la mancanza di fiato dopo questo terzetto di capolavori suonato senza pause dalla band, e la fiammella dell'accendino (viola) tenuta per tutta l'esecuzione di Immortality, il commiato musicale di Eddie Vedder a Kurt Cobain sublimato nella tragica frase finale "Some die just to live". E poi lui, il gran finale di Rockin in a Free Wolrd di Neil Young. Esplosiva. Infinita. Travolgente. Strepitosa. Quasi non ci potevo credere di quello che avevo appena assistito. Dentro di me ripetevo: "Ancora non ci credo di essere qui, a Roma, in mezzo a migliaia fan dei Pearl Jam"... di cui al contrario a Venezia, non avevo nessuno con cui condividere la passione per questa band.
Ora un po' di cronaca da tramandare ai posteri. Attingendo a pearljamonline.it, il sito italiano dedicato ai Peal Jam attivo dal 2001, recupero l'esatta scaletta del concerto: Release, Last Exit, Animal, Hail Hail, Dissident, In My Tree, Corduroy, Better Man, Not for You, Even Flow, Daughter/Androgynous Mind (Sonic Youth)/W.M.A., Jeremy, Hunger Strike (Temple of the Dog), Black/We Belong Together (Rickie Lee Jones), State of Love and Trust, Sometimes, Rearviewmirror, Immortality, Lukin, Alive. Encore: Who You Are, Once, Present Tense, Smile, Rocking in the Free World (Neil Young).
Torniamo al 1996. La band si congeda. Recupero la mia sacca e me ne vado. Quando sono già sulla porta, mi accorgo di un errore atroce. Ho preso quella sbagliata. Torno indietro fulmineo e per fortuna la trovo ancora lì. Non voglio neanche pensare all'idea che l'avessi persa per sempre. Ok, adesso può cominciare la strada del ritorno. E adesso che si fa? Esco gonfio di ogni possibile sentimento ma di mezzi, neanche l'ombra. Dopo almeno un'ora di attesa, arriva un autobus su cui ci fiondiamo in massa, riuscendo ad arrivare alla stazione Termini, all'epoca chiusa. Con i pochi soldi rimasti, recupero un taxi andando fino alla Tiburtina, e lì trovo un treno che mi porterà a Milano, il tutto debitamente annotato sull'agenda (vedi foto).
Il problema adesso sarà stare sveglio per scendere a Bologna. Certo, potevo prendermela comoda e andare a fare la nanna nelle sicure pareti parentali, ma la cosa non mi è mai passata per la mente. Fin da principio avevo deciso che sarei tornato subito dopo la fine del concerto, per viverlo dentro e fuori la pelle e l'anima. È dura. Sonno e stanchezza mi avvolgono, ma grazie al mio inseparabile walkman che ora pompa PJ a getto continuo, riesco nell'impresa. Sono le 4 del mattino quando smonto nel capoluogo emiliano e un'ora più tardi, un Interregionale mi cullerà fino Venezia. Dormire? Non ci penso proprio! È l'ultima parte del viaggio (credo, ndr). Fermata dopo fermata, mentre i pendolari salgono a bordo, nel pieno della mia ribelle adrenalina, vedo il sole sorgere. Mi sento il cuore pieno di poesia e magia.
Ho solo vent'anni. Ho appena visto suonare i Pearl Jam e la consapevolezza di un'esistenza in totale caduta libera. Quello fu il viaggio. Il mio viaggio. Il mio concerto. Da solo in una metropoli. Quello che seguirà (appena) negli immediati due anni successivi, sarà un lungo ed estenuante assolo senza fine, in rotta/scontro verso nuovi significati del dolore nell'anima e nel fisico. Senza saperlo però, un germoglio del futuro più incredibile aveva appena iniziato il suo ciclo vitale. Quella t-shirt nera con il disegno del compact disc di No Code, comprata e indossata appena arrivato fuori dal Palaeur, un giorno chiuderà il cerchio di una delle più sincere e autentiche storie di amicizia. Adesso però, è ora di scrivere l'ultimo paragrafo. Un finale inaspettato e per questo, veracemente grandioso.
Sbarco distrutto alla stazione di Venezia Santa Lucia con la musica dei Pearl Jam che ormai è parte integrante di ogni mia molecola. Sono sudato, sfiancato ma pieno di energia rock. Non ho nessuna intenzione di tornare a casa e chiudermi in stanza. Da una cabina del telefono chiamo una mia carissima amica. Lei sta frequentando l'ultimo anno delle Scuole Superiori e sta per andare a scuola. Le vado incontro per berci un caffè insieme e darle un souvenir del concerto. Insieme a lei, c'è una delle sue migliori amiche che ho conosciuto qualche mese prima e con cui ho subito legato. Insieme a quest'ultima, 18 anni dopo, assisterò a un concerto dei Pearl Jam, a Trieste (2014), con i rispettivi compagni di vita. Prestatale dal sottoscritto, lei indosserà proprio quella maglia nera che comprai al concerto dei Pearl Jam il 12 novembre 1996, a Roma. E come faccio a non essere sentimentale adesso?!?...
IL BATTITO IMMORTALE DEL PRESENTE Non interrompermi,
non ho dormito neanche stanotte…
Mi sono scontrato
con il bagliore delle onde lunari… ... è stata una nuova sensazione
Ho paura che non sarò
più in grado d'imparare altro
per molto tempo...e non sarò
più in grado di tornare
indietro... Puoi scoprire
quanto tempo passerà prima che inizi
a capirlo insieme a te?...
Storia di recenti incursioni,
parole moderne, strade
tardive... Non sono certo
tu sia riuscita a vedere
dove mi sia affacciato... Non
mi sono distratto,
la tua calligrafia è ancora fresca...
Ho sempre guardato il sole
all’indietro perché un giorno pensavo
avrei trovato la mia strada… Poi
decisi di prendere sul serio
le ombre, e il sangue
si fece lacrime gravemente gentili
Prigioni cadute... Si sbriciolano
i fucili... Conchiglie come mulini
in una scia di fuoco
a lume di cammino… Storia di calpestio
di rugiada e sorrisi appena (s)conosciuti...
Consapevolezza e paracadute...
Ogni giuramento senza graffi
è un puzzle di recinzioni in meno
nella mia vita...
Avevo già rinunciato,
volevo rinunciare ancora…
… Nel nome dei sogni che non sapevo
più fare, mi strappai le braccia
per imparare a camminare... ho intinto
lo sguardo affogando
dentro la mia indifendibile innocenza
fino a barcollare
in un cerchio di vertici cognitivi,
equivalenti e interscambiabili... Erano i simboli,
erano nuvole, noi, esseri umani...
Il codice... La visione di un respiro... la mia
strada più gloriosamente senza fine...
…
La marea arrivò fin oltre la mia gola...
Ho trovato la forza
di proseguire... C'è qualcosa
che volevo chiedere
alle nostre mani... Credo a questo finale
perché siamo ancora così vicini
(Venezia, 12 novembre 2021)
I Pearl Jam dal vivo a Roma nel 1996
Un giovanissimo Luca Ferrari (settembre '96) e l'agenda con cui andai a Roma
Il 9 novembre 2001 uscì il terzo album di Elisa, Then Comes the Sun. Pochi giorni dopo, in una fredda giornata d'inverno, Heaven Out of Hell iniziò un'incredibile storia nella mia vita.
So are you turning around your mind ... Quindi stai girando intorno la tua mente
do you think the sun won't shine this time pensi che il sole non brillerà questa volta
are you breathing only half of the air stai respirando solo metà dell'aria
are you giving only half of a chance stai dando solo la metà di una possibilità
don't you wanna shake because you love non vuoi agitarti perché ami
cry because you care piangi perché ti importa
feel 'cause you're alive senti perché sei vivo
sleep because you're tired dormi perché sei stanco
Si presenta così Heaven Out of Hell, primo singolo estratto dal terzo album di Elisa. Prima di quell'ascolto, per il sottoscritto la cantante friulana era un'emerita sconosciuta se non per la canzone e soprattutto il video di Luce (tramonti a nord est). Per il resto, ignoravo che avesse già pubblicato due album Pipes & Flowers (1997) e Asile's Wolrd (2000). Ancor meno sapevo che il 9 novembre 2001 era uscito il suo nuovo lavoro, Then Comes a Sun (Sugar Music). Per niente affine alla musica italiana, l'incontro con questa atipica artista originaria di Trieste, che all'epoca cantava esclusivamente in inglese (e molto bene), era solo questione di tempo. Così accadde
Quel momento arrivò inaspettato, com'è tipico delle relazioni umane più magiche. Nell'ennesima metamorfosi della mia vita, rincontrai un'amica della scuola di restauro a Venezia (UIA), e in una fredda giornata d'inverno andammo insieme a visitare la gipsoteca del Canova a Possagno (Tv). Sulla strada del ritorno, mentre mi riportava in stazione, alla radio passò Heaven Out of Hell. Complice la calda atmosfera malinconica della spoglia campagna veneta, insieme all'immagine interiore di un paradiso che sgorgava fuori da un inferno (esattamente quello che stavo cercando di fare dentro di me, ndr), la canzone iniziò a farsi strada nelle mie ispirazioni. Il 2002 sarebbe stato un anno scandito dalla musica di Elisa, insieme alla quale avrei abbandonato la laguna per trasferirmi a Firenze, iniziando la professione di giornalista.
Dopo averla vista in televisione durante un grandioso live su MTV Supersonic in cui presentò il suo ultimo disco, negli anni successivi ebbi la fortuna di vedere Elisa quattro volte dal vivo: la prima, nel 2002, al Folkest di Spilimbergo (Pn), dopo un interminabile viaggio iniziato sulle rive dell'Arno e terminato con autostop per raggiungere la meta del live. A teatro, nel capoluogo toscano per il tour di Lotus (gennaio 2004), al cui termine della performance riuscì a consegnarle un book di poesie (rilegate) e tutte ispirate dalla sua musica; una terza volta dalle parti di Conegliano e infine inviato stampa live a Piazzola sul Brenta (2014).
Then Comes the Sun fu l'album che fece fare il definitivo salto di qualità a Elisa, passata negli anni successivi a una dimensione più popolare e purtroppo, lo dico unicamente a titolo personale, alla lingua italiana. In Then Comes the Sun l'artista è ancora una giovane musicista che ha voglia di sperimentare e sorprendere, con retrovie emozionali e autostrade sgangherate dove far risplendere dolore e arcobaleni. Io e Heaven Out of Hell ci prendemmo per mano, un giorno, per caso. Camminammo silenziosi per mesi, poi a un certo punto iniziammo a confidarci e da allora non abbiamo più smesso.
Una curiosità "follemente" personale su questa canzone. Nel mio immaginario di mia rock band, che mai ho fondato e mai fonderò, il nome lo avevo scelto: nato proprio tra questi versi e sarebbe stato Heleven, crasi da Hell (inferno) e Heaven (paradiso), ossia le due realtà che viviamo quando proviamo delle emozioni. Deliri tardo-adolescenziali a parte, adesso potrei andare a ripescare qualche vecchia poesia scritta in passato e ispirata dalla musica di Elisa, invece no. Da parecchio tempo non ascolto Heaven Out of Hell, e adesso è anche la stagione ideale per intingersi in quell'atmosfera. Me la sto ascoltando proprio in questo istante, regalando qualche intenso minuto di poesia a me, a te (Elisa) e a tutti voi:
SOGLIE DI STELI SABBIOSI
… è troppo presto
per sperimentare una vera emozione? Vorrei poter esprimere
liberamente le mie lacrime
senza reclami
di ottuse lettere dell’alfabeto...
Farò così… penso che farò
ancora così… Penso
che farei così
se tu fossi accanto a me, e volessi
aggiungere una spiegazione
alla libertà
dei mie boomerang sopravvissuti
Sento le mani rimbombare
… seguirò la soffice corrente
di questo ruscello, e poi
un altro ancora… Mi
nasconderò dalle grotte
in qualche presagio
di sole... Prenderò una decisione
e mi lascerò trovare
Non chiedermi il perché...
le mie tracce
non sono state abbastanza... continueremo
a stare lontani,
e il mondo ci sorriderà comunque
Sussurri
dentro il cuore... le rocce
che ancora opprimevano
le albe scalcinate,
arroventavano il tempo
che non ne voleva sapere
di rinunciare alle catene e agli spiragli...
In quale momento delle nostre parole
si sono fatte da parte
le stelle?… Questo è il nostro giorno..
Storie ancestrali
di muri caduti
e abbracci risorti… e il vento
ci depistò, disteso, danzando...
(Venezia, 9 novembre 2021)
Elisa, Heaven Out of Hell
Il biglietto del live 2002 a Spilimbergo, di Elisa