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venerdì 12 novembre 2021

Peal Jam, il battito immortale di No Code 1996

Il biglietto del concerto dei Pearl Jam © Luca Ferrari

Rock, poesia e bagliori di un impensabile futuro. 25 anni fa i, il 12 novembre 1996 assistetti al mio primo concerto dei Pearl Jam, a Roma, per il tour del nuovo album, No Code.

di Luca Ferrari

Il rock autentico dei Pearl Jam, per la prima volta dal vivo! Questo è più di un ricordo. Ciò che sto scrivendo e leggerete, è molto di più di un reportage musicale. Qui c'è l'essenza di ciò che è stata la mia vita (e in parte lo è ancora). In questo articolo c'è l'anima vulnerabile di Luca Ferrari. Quel viaggio iniziò insieme alla mia inseparabile agenda e le parole sputate dentro, on the road. Proseguì sulle rotaie tra cassette e sigarette. Si affacciò nell'attesa di ore e ore fuori dai cancelli. Infine arrivarono loro! Infine arrivò il momento della grande musica on stage. Fresco dei miei fragili e sfiancanti vent'anni appena compiuti, il 12 novembre 1996 andai al Palaeur di Roma a vedere per la prima volta i Pearl Jam dal vivo.

E mo' come comincio? Come si fa scrivere il ricordo di un evento di una tale portata emotiva? Come si fa a tramandarlo senza rischiare di deragliare di brutto? Io ci provo. Ci provo, per me, e per chi avrà la voglia (e la pazienza) di leggerlo fino all'ultima riga. Sarà un viaggio autentico e sfibrante. Conteso da traumi adolescenziali e scritte rabbio-riottose protese verso un insperato futuro, il 12 novembre 1996 andai a Roma per assistere al mio primo concerto dei Pearl Jam. Esattamente venticinque anni fa, all'ora esatta in cui è stato pubblicato questo lungo articolo di memorie umano-musicali, mi trovavo già davanti ai cancelli del Palaeur. Un'attesa lunghissima per vedere una band che da allora non ha più smesso di accompagnare la mia esistenza.

Faccio una doverosa premessa. All'epoca, così come avrei fatto nei successivi anni fino al 2004 circa, avevo sempre con me un'agenda (diary), dove annotavo pensieri, frammenti di poesie, tutto quello che mi frullasse nella mente. Una sorta di social network privato, con la differenza che mai e poi mai lo avrei mai fatto leggere ad alcuna/o, se non in rare e privilegiate occasioni. L'agenda che in quel momento stavo scrivendo, venne ovviamente con me. Impossibile pensare di vivere una simile esperienza senza una base di atterraggio per i miei vorticosi pensieri. Preciso questo perché alcuni dettagli ve li narrerò proprio sulla base dell'inchiostro sgorgato dentro quello scrigno, ancora gelosamente conservato.

No Code
 era il mio album. Per certi versi, più di tutti. Ten e Vs li avevo "digeriti" insieme. Vitalogy fu il primo disco dei Pearl Jam che comprai non appena uscì in una gelida e solitaria serata d'inverno (22 dicembre 1994), nella più autentica e sofferente mutazione umana-emotiva. Vitalogy definì il mio DNA interiore, spalancando le porte di un legame immortale con la band di Seattle, il tutto mentre la poetica tormentata di Kurt Cobain bruciava/brillava/stava esplodendo dentro di me. No Code uscì a fine agosto 1996, in un altro momento cruciale della mia vita. Fu l'album dell'ispirazione "NeilYounghesca". Fu l'album col quale ruppi definitivamente col passato, scegliendo l'ignoto. Fu l'album che mi accompagnò in una lotta furiosa e senza sosta tra demoni interiori e incessanti lacrime come ponte levatoio verso le verità che dovevo trovare e comprendere.

Prima di quel momento, a parte i video, una sola volta avevo visto i Pearl Jam in diretta. Dal vivo, alla cerimonia di premiazione dei Grammy Awards '96, dove si divisero (nella mia anima) con la dolcezza spendente di Mariah Carey. Le notizie all'epoca si leggevano solo sulle riviste musicali, o se si era davvero fortunati, beccando qualche servizio su MTV. Così, quando li vidi sul piccolo schermo, non potevo sapere che di lì a qualche mese me li sarei trovati davanti. Li vidi dal vivo davanti al mio piccolo schermo e rimasi colpito dalla loro atipica autenticità, ma allo stesso tempo mi confermarono tutto quello che avevo letto e immaginato. Un qualcosa che avrei vissuto in modo ancor più ravvicinato e intenso, parecchi anni dopo, quando da giornalista intervistai i Mudhoney.

Arrivò il giorno della partenza. Pur avendo due t-shirt dei Pearl Jam comprate nei mercatini di Bologna e del Lido di Venezia, al concerto decisi che avrei indossato ben altro. Dentro l'arena avrei sfoggiato una maglietta bianca a maniche corte con una foto gigante di Kurt Cobain e la scritta sotto: 1967-1994: The End of Rock. La scelta non fu casuale. Non solo rappresentava il mio fortissimo legame con il cantante dei Nirvana, ma quell'indumento veniva dagli Stati Uniti, comprata da uno dei rarissimi ex compagni di scuola che potevo chiamare amico, e che me la portò dal viaggio post Maturità da New York. Io al contrario non feci nulla. Pur superata la prova finale, non avevo nulla da festeggiare.

Il viaggio in treno in Intercity da Venezia a Roma, 6 ore circa, fu un continuo e incessante ascoltare canzoni, partendo com'era mia abitudine dall'emblematica Train of Consequences dei Megadeth, e via via restando sui binari dell'heavy metal, in particolare, con profonde incursioni nella poetica di New Adventures in Hi-Fi (1996), capolavoro degli R.E.M. uscito appena due mesi prima. E i Pearl Jam? Niente? Quando vado a un concerto ho sempre sentito naturale la necessità di ascoltare poco la band in oggetto, e naturalmente a livelli disumani dopo se il concerto si sia dimostrsto all'altezza. Il live romano dei Pearl Jam fu l'apoteosi di questa dinamica.

Dall'agenda, canzoni ascoltate nel viaggio Venezia-Roma © Luca Ferrari

Passata la notte da parenti romani, mi presentai ai cancelli prestissimo, quando l'orologio non segnava neanche le otto del mattino, con scorte alimentari ridotte al minimo (beata folle gioventù), trovando subito un gruppetto di persone ai quali unirmi. Molto introverso, lentamente mi feci trascinare dal contesto. Distesi tutti per terra, in particolare strinsi amicizia con un ragazzo di San Marino col quale provammo a giocare/scommettere su cosa i Pearl Jam avrebbero scelto per aprire lo show. Per la cronaca sbagliai di pochissimo. Dissi Last Exit (Vitalogy), che la band eseguirà per seconda. Nell'attesa, riuscii perfino a rivedere mia cugina di secondo grado, giunta sul posto appositamente per salutarmi, e trovandomi, dopo un bel po' che non ci si vedeva, in totale mutazione "capellona".

Le ore passavano e la massa si fece sempre più massiccia. Il sole intanto picchiava duro e la mia testa, dopo ore e ore, iniziò a vacillare. Venni lentamente risucchiato dalla folla, perdendo davvero colpi, e a un certo punto temetti per il peggio. Perse le prime file, riuscii a entrare ma la situazione sembrò davvero compromessa. Il mal di testa era talmente forte che non riuscii neanche a vedere la band di spalla, i Fastbacks, facendo su e giù in bagno a lanciarmi secchiate d'acqua gelida per ammorbidirmi il cranio. Un dettaglio di nota. Una volta entrato, fui invitato (come tutti) a lasciare la mia borsa a tracolla con dentro anche la mia preziosa agenda, in una specie di magazzino aperto.

Finalmente arrivò il momento tanto atteso. Trovai posto nell'ampia platea vicino a un gruppetto di ragazze poco più giovani di me e con cui ogni tanto condivisi qualche emozione sonora. Il concerto iniziò e... e fu uno shock! La prima canzone, Release, non la seppi riconoscere. Avevo atteso quel momento da mesi e adesso non avevo nessuna parola nella testa da poter cantare. Lo ammetto, ci rimasi parecchio male, poi per fortuna arrivò il turno di Last Exit e iniziai a sciogliermi... e a pogare. Il concerto dei Pearl Jam per  me iniziò in quel momento.

Sono passati 25 anni da quell'istante e se credete che mi possa ricordare lo show canzone per canzone, siete degli illusi, e io non dico le bugie. Guardando la scaletta, mi accorgo di uno scherzo della memoria. Ho sempre raccontato che i PJ suonarono di fila Jeremy (la canzone cui sono più legato in assoluto insieme a Immortality), Dissident e Black. Non fu così. La seconda venne suonata in un altro momento, e tra i due capolavori di Ten, ci misero dentro Hunger Strike dei Temple of the Dog che in tutta onestà, proprio non ricordo nonostante la conoscessi molto bene. Erano già passati mesi quando su un pezzo di carta scrissi/giurai che l'album omonimo dei Temple od the Dog per l'appunto, lo avrei comperato solo quando sarei andato a Seattle. Una promessa che avrei mantenuto 16 anni dopo al Silver Platters, comprando anche Apple dei Mother Love Bone.

Ricordo ancora, e bene, la mancanza di fiato dopo questo terzetto di capolavori suonato senza pause dalla band, e la fiammella dell'accendino (viola) tenuta per tutta l'esecuzione di Immortality, il commiato musicale di Eddie Vedder a Kurt Cobain sublimato nella tragica frase finale "Some die just to live". E poi lui, il gran finale di Rockin in a Free Wolrd di Neil Young. Esplosiva. Infinita. Travolgente. Strepitosa. Quasi non ci potevo credere di quello che avevo appena assistito. Dentro di me ripetevo: "Ancora non ci credo di essere qui, a Roma, in mezzo a migliaia fan dei Pearl Jam"... di cui al contrario a Venezia, non avevo nessuno con cui condividere la passione per questa band.

Ora un po' di cronaca da tramandare ai posteri. Attingendo a pearljamonline.it, il sito italiano dedicato ai Peal Jam attivo dal 2001, recupero l'esatta scaletta del concerto: Release, Last Exit, Animal, Hail Hail, Dissident, In My Tree, Corduroy, Better Man, Not for You, Even Flow, Daughter/Androgynous Mind (Sonic Youth)/W.M.A., Jeremy, Hunger Strike (Temple of the Dog), Black/We Belong Together (Rickie Lee Jones), State of Love and Trust, Sometimes, Rearviewmirror, Immortality, Lukin, Alive. Encore: Who You Are, Once, Present Tense, Smile, Rocking in the Free World (Neil Young).

Torniamo al 1996. La band si congeda. Recupero la mia sacca e me ne vado. Quando sono già sulla porta, mi accorgo di un errore atroce. Ho preso quella sbagliata. Torno indietro fulmineo e per fortuna la trovo ancora lì. Non voglio neanche pensare all'idea che l'avessi persa per sempre. Ok, adesso può cominciare la strada del ritorno. E adesso che si fa? Esco gonfio di ogni possibile sentimento ma di mezzi, neanche l'ombra. Dopo almeno un'ora di attesa, arriva un autobus su cui ci fiondiamo in massa, riuscendo ad arrivare alla stazione Termini, all'epoca chiusa. Con i pochi soldi rimasti, recupero un taxi andando fino alla Tiburtina, e lì trovo un treno che mi porterà a Milano, il tutto debitamente annotato sull'agenda (vedi foto).

Il problema adesso sarà stare sveglio per scendere a Bologna. Certo, potevo prendermela comoda e andare a fare la nanna nelle sicure pareti parentali, ma la cosa non mi è mai passata per la mente. Fin da principio avevo deciso che sarei tornato subito dopo la fine del concerto, per viverlo dentro e fuori la pelle e l'anima. È dura. Sonno e stanchezza mi avvolgono, ma grazie al mio inseparabile walkman che ora pompa PJ a getto continuo, riesco nell'impresa. Sono le 4 del mattino quando smonto nel capoluogo emiliano e un'ora più tardi, un Interregionale mi cullerà fino Venezia. Dormire? Non ci penso proprio! È l'ultima parte del viaggio (credo, ndr). Fermata dopo fermata, mentre i pendolari salgono a bordo, nel pieno della mia ribelle adrenalina, vedo il sole sorgere. Mi sento il cuore pieno di poesia e magia.

Ho solo vent'anni. Ho appena visto suonare i Pearl Jam e la consapevolezza di un'esistenza in totale caduta libera. Quello fu il viaggio. Il mio viaggio. Il mio concerto. Da solo in una metropoli. Quello che seguirà (appena) negli immediati due anni successivi, sarà un lungo ed estenuante assolo senza fine, in rotta/scontro verso nuovi significati del dolore nell'anima e nel fisico. Senza saperlo però, un germoglio del futuro più incredibile aveva appena iniziato il suo ciclo vitale. Quella t-shirt nera con il disegno del compact disc di No Code, comprata e indossata appena arrivato fuori dal Palaeur, un giorno chiuderà il cerchio di una delle più sincere e autentiche storie di amicizia. Adesso però, è ora di scrivere l'ultimo paragrafo. Un finale inaspettato e per questo, veracemente grandioso. 

Sbarco distrutto alla stazione di Venezia Santa Lucia con la musica dei Pearl Jam che ormai è parte integrante di ogni mia molecola. Sono sudato, sfiancato ma pieno di energia rock. Non ho nessuna intenzione di tornare a casa e chiudermi in stanza. Da una cabina del telefono chiamo una mia carissima amica. Lei sta frequentando l'ultimo anno delle Scuole Superiori e sta per andare a scuola. Le vado incontro per berci un caffè insieme e darle un souvenir del concerto. Insieme a lei, c'è una delle sue migliori amiche che ho conosciuto qualche mese prima e con cui ho subito legato. Insieme a quest'ultima, 18 anni dopo, assisterò a un concerto dei Pearl Jam, a Trieste (2014), con i rispettivi compagni di vita. Prestatale dal sottoscritto, lei indosserà proprio quella maglia nera che comprai al concerto dei Pearl Jam il 12 novembre 1996, a Roma. E come faccio a non essere sentimentale adesso?!?...

IL BATTITO IMMORTALE DEL PRESENTE

Non interrompermi,

non ho dormito neanche stanotte…

Mi sono scontrato

con il bagliore delle onde lunari…
... è stata una nuova sensazione

Ho paura che non sarò

più in grado d'imparare altro

per molto tempo...e non sarò

più in grado di tornare

indietro... Puoi scoprire

quanto tempo passerà prima che inizi

a capirlo insieme a te?... Storia di recenti incursioni,

parole moderne, strade

tardive... Non sono certo

tu sia riuscita a vedere

dove mi sia affacciato... Non

mi sono distratto,

la tua calligrafia è ancora fresca...

Ho sempre guardato il sole 

all’indietro perché un giorno pensavo 

avrei trovato la mia strada… Poi

decisi di prendere sul serio

le ombre, e il sangue 

si fece lacrime gravemente gentili Prigioni cadute... Si sbriciolano

i fucili... Conchiglie come mulini

in una scia di fuoco

a lume di cammino… Storia di calpestio

di rugiada e sorrisi appena (s)conosciuti... Consapevolezza e paracadute... Ogni giuramento senza graffi

è un puzzle di recinzioni in meno

nella mia vita...

Avevo già rinunciato,

volevo rinunciare ancora… 

… Nel nome dei sogni che non sapevo

più fare, mi strappai le braccia

per imparare a camminare... ho intinto

lo sguardo affogando

dentro la mia indifendibile innocenza

fino a barcollare

in un cerchio di vertici cognitivi,

equivalenti e interscambiabili... Erano i simboli,

erano nuvole, noi, esseri umani... Il codice... La visione di un respiro... la mia

strada più gloriosamente senza fine...

… La marea arrivò fin oltre la mia gola... Ho trovato la forza

di proseguire... C'è qualcosa

che volevo chiedere

alle nostre mani... Credo a questo finale

perché siamo ancora così vicini

(Venezia, 12 novembre 2021)

I Pearl Jam dal vivo a Roma nel 1996

Un giovanissimo Luca Ferrari (settembre '96) e l'agenda con cui andai a Roma
Il biglietto del treno per Roma (conservato nell'agenda) © Luca Ferrari
L'adesivo dei PJ comprato al concerto e la testimonianza scritta sull'agenda
mentre ero in attesa del treno, al rientro © Luca Ferrari
Il poster del tour di No Code, e la t-shirt comprata al concerto del 1996 © Luca Ferrari
Dal 1996 al 2014, nel nome dell'amicizia e dei Pearl Jam

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