Un elicottero in volo o forse più di uno (sto andando a memoria senza andare a rivederlo... per ora!). Zone di periferia inglese e persone in fuga, o comunque di corsa. Fumogeni. Il ciclone del Brit Pop non mi ha mai travolto né particolarmente interessato (troppo fedele al sound di Seattle per cambiare così, all'improvviso). Impossibile non conoscerli, certo, ma di qui ad ascoltarli con attenzione, proprio no. A farmi cambiare idea ci pensò una delle band simbolo, gli Oasis, nell'album più difficile della loro carriera. Be Here Now (1997), quello in cui avevano gli occhi del mondo addosso dopo i successi di "Definitely Maybe" e "(What's the Story) Morning Glory". A trainare verso il mio gradimento, una ballata rock lenta e distorta, Do You Know What I Mean?.
Morale, ciò che facevano i fratelli Liam e Noel Gallegher era affar loro ma a quel tempo MTV esisteva ancora e la guardavo, così quel video, volente o no(e)lente, mi arrivò. L'atmosfera si sposava molto con i miei pensieri. Il giovane cantante Liam era proteso in avanti com'era tipico della sua postura davanti al microfono e la canzone non era così melodica né accattivante come le varie Roll with it o Wonderwall, successi planetari della band di Manchester, anzi. Il sound aveva un ché di distorsione che iniziò a farmi apprezzare gli Oasis, o comunque considerarli. E in effetti negli anni a venire, altre canzoni entrarono nel mio parterre di protette: Little by Little, Don't Let it Out, Lyla, la strepitosa The Importance of being Idle con l'attore gallese Rhys Ifans nel video.
Adesso è il momento di riprendere il cammino sulle note di D'You Know I Mean? degli Oasis. E anche se su Youtube è presente una versione rimasterizzata, io riparto da quella meno visivamente impeccabile, ma più veritiera.
LA TEMPESTA ASCOLTA LA COMPRENSIONE
stato di richiesta... un desiderio
in attesa di comprendere
il perché dell’assenza
delle tende
dinnanzi alle esplosioni... le mine
nel bambino
del mio respiro potrebbero indicare
una fine, ma oggi
non è quella giornata
l’aggressività del mondo
è un fulmine
dove la terra è incastrata
e il mare
è incapace di riversare
le sue lacrime
vuoi ancora tenermi d’occhio
o un giorno pensi
di poter liberare i demoni
da sotto il il mio letto
ho appena saputo
che tutte le luci a intermittenza
saranno sostituite
da migrazioni artificiali…
Mariah Carey e la cover di Butterfly (1997) - Luca Ferrari (London '97)
Per la prima volta a Londra, nel pieno della mio amore per il rock, a ispirare dolcezza nel mio scombussolato cammino, c'era lei: Mariah Carey e il suo nuovo album Butterfly (1997).
Il mio primo viaggio oltremanica. Un "chiodo" di ordinanza. Un'inseparabile camicia a quadrettoni (anche) per celebrare l'acquisto a Piccadilly Circus del doppio CD live The Year of the Horse di Neil Young & Crazy Horse. Una maglia a manica lunga viola con riprodotta la copertina dell'EP Sweet Dreams dei Marilyn Manson. Una spilla comprata da un ambulante per la strada in difesa degli animali randagi. In mezzo a tutto questo marasma anti-nichilista e dolori insormontabili di una vita alla deriva, c'era lei: Mariah Carey, la dolcezza più semplicemente naturale del pop. Nel mio marasma rockettaro al cospetto della City inglese, lì sbarcato subito dopo aver assistito alla proiezione del documentario Year of the Horse di Jim Jarmush alla Mostra del Cinema di Venezia, c'era l'incantevole Mariah Carey.
Una voce delicata, così poeticamente lontana dalle mie troppe cicatrici di ventenne. Era appena uscito il suo nuovo album, Butterfly (1997) di cui già circolava il video del primo singolo, Honey, e Londra era piena di suoi manifesti. La capitale inglese all'epoca era una meta per tutti coloro fossero in fuga o cercassero una vita senza troppi formalismi. Io ci andai solamente una decina di giorni a trovare degli amici che si erano trasferiti ma quel mondo non mi sedusse per niente. Non lo avevo ancora focalizzato ma i grandi centri non facevano proprio per me, non a caso, appena potevo me ne andavo da solo nelle più miti campagne fuori città. Nello sguardo e nelle parole di Mariah Carey vedevo tutto quello che mancava nella mia vita: una speranza raccontata da una carezza (sonora).
Nel mio vagare per le fermate della tube, ricordo ancora i suoi grandi manifesti. Scattai un paio di foto dove si vedeva anche la mia sagoma nel riflesso. Quel primo viaggio in Inghilterra per certi versi chiuse la prima grande epoca riottosa della mia vita, e ciò che accadde nel successivo anno e mezzo non sarebbe stata proprio una passeggiata. L'esposizione al rock aumentò a dismisura e sempre più dolorosamente profonda fino a livelli davvero incontenibili, lasciandomi alle spalle voragini di solitudine e risposte deragliate. Ogni tanto però, questa giovane e incantevole donna dalla voce incredibile, sbucava tra Sex Pistols e Mudhoney, come sussurrandomi che a fianco dei troppi arpioni conficcati dentro l'anima, un giorno un germoglio d'amore si sarebbe trasformato in un fiore forte e delicato.
REALTÀ & SOGNI, UNA SOLA PROFONDITÀ Colore dopo colore,
per annerire le buche
delle mie mani… sopra il cielo
di un respiro inesplorato,
è volato l’esito di un esilio incosciente… la
dimensione era la scelta,
la vita si stava dileguando
a intemperanze
e riflessi bagni di rugiada
... quello era solo un altro momento
dell’inevitabile sacrificio
votato al silenzio
…ci saranno le panchine anche qui?
Sono stato svaligiato
da lettere scambiate per indirizzi
senza meta
A che ora è il randevù
con l’oceano? Non sono alla ricerca
di suppliche, anche le mie guance
hanno misconosciuto
gli zigomi del domani… Posso
ancora aspettarti
sotto l’arco di una frastagliata pioggia restia
le decisioni di generali,
i marciapiedi sconnessi
sotto il peso di una risata immobile
disattesa nell’avvenire
di un incontro sempre rimandato
aggrappato a qualche vetta
già dissolta, il luccichio… separazione,
e rilettura delle nuvole… il fumo
intrappolato negli ultimi lampioni
di campagna…
eccoci… come se ci fossimo presi
per mano, lasciando all’addio
l’eredità più delicata
dell'amore universale…
(Venezia, 24 Settembre ‘22)
Honey, by Mariah Carey
I biglietti originali del viaggio a Londra e Mariah Carey di Honey (1997)
Una bellissima Mariah Carey nel video Honey
Dolcezza e sensualità: Mariah Carey nel videoclip di Always Be My Baby
Il 18 settembre 1992 uscì nelle sale americane il film Singles, dove il registaCameron Crowe immortalò la nascente scena musicale di Seattle. Tra le canzoni della strepitosa colonna sonora, il mio cuore ha sempre prediletto l'acustica Battle of Evermore (The Lovemongers).
Quel film l'ho visto in televisione, ho comperato la vhs originale e il cd della colonna sonora, che chiamarla "strepitosa" è dire poco. Sto parlando di Singles - L'amore è un gioco (di Cameron Crowe), sbarcato nelle sale americane il 18 settembre 1992. Un film in apparenza incentrato sulle vicende lavorative-amorose in stile Friends, ma in realtà incentrato sulla scena musicale di Seattle, ormai prossima all'esplosione. Eppure nonostante la presenta di pesi massimi quali Alice in Chains, Pearl Jam, Mudhoney, Soundgarden e Mother Love Bone, la canzone che da sempre mi è rimasta scolpita nel cuore è Battle of Evermore, suonata dai The Lovemongers, side project delle sorelle Ann e Nacy Wilson, degli Heart, band formatasi anch'essa a Seattle verso la fine degli anni '60.
Se si esclude l'inspiegabile presenza degli Smashing Pumpkins e il tributo a Jimi Hendrix, originario proprrio di Seattle, il resto è un tributo alle band della città del Nordovest, con la sola eccezione dei Nirvana.
Nei primi anni Novanta non esistevano le email né gli smartphone con la messaggistica istantanea. Per comunicare con le persone non c'erano che tre strade possibili: incontrarle, telefonarle da casa o in una cabina, scrivere una lettera. Per uno come il sottoscritto, la terza era la più consona e fu così che nel lontano 1995 iniziò una corrispondenza epistolare con una ragazza dagli stessi gusti musicali (dicasi amica di penna). Una persona che si rivelò una grandissima amica. Un'amica con cui, quando fantasticavamo a distanza su un ipotetico viaggio comune a Seattle, io nella mia anima ci vedevo sempre così, a suonare Battle of Evermore dei The Lovemongers. Lei voce-chitarra, io chitarra solista, terminando poi la performance con un abbraccio fratello-sorella.
Ancora oggi, ascoltare quella canzone mi riporta in un'epoca lontana fatta di parole, sogni e poesia. Quel mondo dopo tutto, è sempre continuato...
STATO D’INCHIOSTO E IMMORTALITÀ io e te, ero solo io…
da parte, lanciandosi nella pagina chiusa
di una stella senza fronde cui sorridere
Qualche lettera finita
In anticipo… ogni soglia,
un'estenuante presenza celeste
arpionata nella terra esposta
il ticchettio della fuga
non avrebbe sopportato
la vista dei grattacieli,
un giorno al massimo
mi avrebbero trovato addormentato
sotto una statua
di pan di albicocca e carrube
ho corso in mezzo all’acqua,
ho rischiato di annegare
non lo dico perché tu mi compatisca,
un giorno conoscerai
tutta la mia storia… Mi manca
ancora una bilancia e qualche respiro
… alla fine
sono arrivato dove mi sono sempre
visto…
le marce imperiali
non si sono mai davvero interrotte,
non sono
l’interlocutore ideale
quanto si tratta
di assumere una pozione diversa
da quello che ancora penso…
il suono sonoro
di uno spazio aperto, è l’oceano
che abbiamo sempre
intonato… quel mondo era lì
e lo siamo ancora,
la semplicità di un ringraziamento
l’alfa che non ha mai cercato
un finale
(Bled [Slovenia], 18 Settembre ‘22)
Battle of Evermore, by The Lovemongers (OST Singles)
"Non c'è futuro nel sogno inglese", ringhiavano i Sex Pistols a metà degli anni Settanta in God Save the Queen. La punk band inglese oggi torna protagonista con la miniserie "Pistols".
Ricordo ancora un pomeriggio d'estate senza nulla all'orizzonte. Una terrazzina minuscola affacciata su una strada alberata. Un amico mi passa un librettino tascabile musicale. Protagonisti di quel volumetto, i Sex Pistols. Li conoscevo da poco e a parte la epocale Anarchy in the UK, ascoltata anche durante un furioso pogo alla prima edizione del Beach Bum Rock Festival di Jesolo (4-6 luglio 1995), poco altro sapevo dei punkers inglesi. Ci misi poco a ritrovarmi nella loro vita scomposta, e quasi trent'anni dopo, l'8 settembre 2022, ecco sbarcare su Disney+ la serie Pistols diretta da Danny Boyle, incentrata sul libro del chitarrista della band, Steve Jones.
"Don't be told what you want Don't be told what you need There's no future No future No future for you ... God save the queen We mean it man There's no future In England's dreaming"
Il punk mi ha sempre affascinato, specialmente se visto come momento di rottura. Collegare i Sex Pistols a una blanda esasperazione anarchica, oltre che sbagliato, per il sottoscritto non lo sono mai stati. Gli ideali di pace e amore degli anni '60 si erano rivoltati contro se stessi, e ora la strada del macchinoso consumismo & perbenismo era sempre più protagonista. Il mondo giovanile era in ebollizione e questa band, prima e forse anche meglio di tutti, incarnò uno spirito nato e bruciato in neanche due anni. Un album capolavoro, Never Mind the Bollocks, e canzoni che ancora oggi sanno incendiare l'anima a cominciare da God Save the Queen...e tanti cari f*****o alla società e a tutto il Regno Unito.
SOSPIRARE (s)FIGURATO
hai mai contato
le esequie dentro
le mie dita… Io
mi sono sempre confuso
con le cartoline
che nessuno ritaglia più
non sai chi sono
banalmente
perché non ho chiesto
il tuo nome
sai dove sono stato
solo perché
non ho mai voluto
difendere una carezza
dal fienile
delle zanzariere aggiustate
domani mi (o)di(e)rete
dove devo andare
avete preso la mia casa,
che cosa vi è rimasto
da mettere nelle scarpe?
dal gracidare
da più lontano delle stelle,
un nuovo Orwell
ha preferito mettersi il rossetto
e giocare
con l’amnesia dell’infanzia
sono stupito
e attardato nel silenzioso riconoscimento
epidermico
I Porno for Pyros del geniaccio Perry Farrell sfornano Hard Charger, primo travolgente singolo della colona sonora film "Private Parts" (1997), biopic sul deejay Howard Stern.
Ci sono canzoni che colleghiamo a una stagione in particolare. Se non c'è mattinata d'inverno dove non potrei non ascoltare Rusty Cage dei Soundgarden o una serata solitaria conclusa sotto le stelle a farmi crogiolare da Hunger Strike dei Temple of the Dog, sono anni ormai che d'estate mi torna sempre una insana e incredibile voglia di ascoltare Hard Charger dei Porno for Pyros, la band che Parry Farrell fondò insieme al sodale batterista Andy Perkins, dopo aver sciolto i leggendari Jane's Addiction.
Ad accompagnarli nel travolgente videoclip, un altro fuoriuscito dalla suddetta band, il chitarrista Dave Navarro, all'epoca militante nei Red Hot Chili Peppers, e Flea, il funambolico bassista dei RHCP. Una formazione a dir poco fantasmagorica e capace d'incantare per sound e carisma. Una performance per un film e un personaggio molto controverso, con un risultato a dir poco esplosivo. E se il videoclip del video non vi basta, date un occhio anche al doppio live Hard Charger + Mountain Song, celebre song dei Jane's Addiction, in occasione di uno speciale su Howard Stern.
PRIMA DEI MIRACOLI
Ecco un’altra giornata impermeabile alle leggende, … schizzano i perché dei tradimenti... dalle stelle, una corte serrata gli ombrelli ...il loro rifiuto ha fatto infuriare i puma ammassati nei tanti fasulli pozzi "sanPatriziani"... Hai mai incontrato qualcuno che ha benedetto il tuo cammino senza volere nulla in cambio?
Un giorno farò vedere a qualcuno i miei bersagli... ... prim’ancora dei miracoli scriverò una lista di bagagli…me la porterò sempre dietro insieme a qualche pietra di quella baia La scelta è davvero difficile… ma cos’è che i poeti hanno voluto dirci? Se mettessi nella stessa stanza un tuono e un sacchetto di terra, che cosa succederebbe alle costellazioni che ancora non so riconoscere? Magari adesso mi direte che siamo tutti inventori e chiunque può permettersi di alleviare le strade…mentre ci pensate, io sognerò ancora di passare qualche tempo in una dimensione condivisa Anche se ci fossimo conosciuti dopo secoli nei fondali oceanici, il suo estro geniale non avrebbe molto da aggiungere a queste righe, Potrebbero volerci ancora molto tempo…Potrebbe darsi che le clessidre abbiano esaurito le loro scelte (Venezia, Luglio 2001-Agosto 2022)
Stars - la cantante dei Cranberries, Dolores O' Riordan
Nell'autunno di vent'anni fa, a Roma, comprai il greatest hits dei Cranberries, "Stars - The Best of 1992-2002)"... ed ecco che l'oscurità si fece più luminosa che mai.
Ho sempre amato guardare il cielo, specie se con le nuvole o notturno con le stelle. Da quando Stars dei Cranberries sbarcò nel mio udito, in un atipico autunno romano, non ho mai trovato una canzone che potesse accompagnarmi meglio nelle serate volutamente passate con lo sguardo all'insù, a cominciare dal fatidico 10 agosto e la notte delle stelle cadenti. Creatori di un rock sempre molto sofferto e allo stesso tempo dolce, passarono pochi mesi, e quella canzone, Stars, riuscì anche ad ascoltarla dal vivo, a Firenze, dove nel frattempo mi ero trasferito. Un concerto doveDolores O' Riordan (1971-2018), ci regalò un'intensa performance, e al cui pensiero, la sua dipartita è ancora più dolorosa.
Insieme a New New York, Stars era l'unica canzone nuova nell'album della rock band irlandese. Non ero mai stato un loro fan assiduo, ma ci sono dischi che alle volte escono nel momento giusto della tua vita. In un'epoca dove Youtube non esisteva e la musica si downlodava poco, comprarsi il CD era ancora la strada ideale per ascoltare musica. Quell'album inoltre, segnò la neonata amicizia con due ragazze della città eterna, e mi caricò di tante e opposte emozioni. Bastò un ascolto e Stars e i The Cranberries divennero parte vibrante della mia vita. Non scriverò nulla di nuovo oggi. La parola all'ispirazione originale, direttamente da quel primo ascolto nell'ottobre 2002...
Il mio battesimo col rock iniziò trent'anni fa esatti, nell'agosto 1992. A scandire la rivoluzione culturale, gli Iron Maiden e il loro ultimo album (all'epoca), il capolavoro Fear of the Dark.
“When I'm walking a dark road/ I am a man who walks alone” finiva così l'ultima canzone di Fear of the Dark, l'omonimo album del gruppo heavy metal inglese, Iron Maiden. Una strofa che senza saperlo, nei miei timidi 15 anni, avrebbe presto segnato il mio imminente futuro. Già, perché quello storico (e strepitoso) album (1992) fu il primo disco rock che ascoltai per intero. Arrivatami in mano da un amico d'infanzia sotto forma di cassetta duplicata, ci misi poco a dimenticarmi di Beatles e The Doors, trovando nel rock contemporaneo la mia dimensione più autentica. Perché un sound mi potesse davvero entrare dentro, c'era bisogno che la band che sentissi mia e la potessi vivere nel mio tempo.
E prima ancora di fare la conoscenza Guns 'n' Roses, Nirvana e Pearl Jam, arrivarono loro: gli Iron Maiden, con uno dei loro migliori album in assoluto: Fear of the Dark, tanto melodico quanto oscuro. Formazione in forma smagliante con Bruce Dickinson alla voce, Dave Murray e Janick Gers alle chitarre, Nico McBrain alla batteria e Steve Harris al basso. L'anno successivo mi sarei comprato la prima t-shirt a tema, la copertina dell'album The Number pf the Beast, e non potevano che essere loro, nel dicembre 1995, a mutazione rock completata, la prima band che avrei visto dal vivo, con Blaze Bailey alla voce al posto di Bruce Dickinson, in un epico concerto al palazzetto dello sport di Pordenone.
Tornando al soggetto dell'articolo, Fear of the Dark contiene 12 tracce. Una dopo l'altra, si ascoltano tutte d'un fiato.
Be Quick or Be Dead – 3:25 (Bruce Dickinson, Janick Gers)
From Here to Eternity – 3:38 (Steve Harris)
Afraid to Shoot Strangers – 6:56 (Steve Harris)
Fear Is the Key – 5:36 (Bruce Dickinson, Janick Gers)
Childhood's End – 4:40 (Steve Harris)
Wasting Love – 5:51 (Bruce Dickinson, Janick Gers)
The Fugitive – 4:54 (Steve Harris)
Chains of Misery – 3:38 (Dave Murray, Bruce Dickinson)
The Apparition – 3:54 (Steve Harris, Janick Gers)
Judas Be My Guide – 3:09 (Bruce Dickinson, Dave Murray)
All'epoca i cd erano un lusso che non tutti si potevano permettere e il più delle volte, la propria discografia era composta da cassette non originali, dando poi sfogo alla propria verve grafica nel ricopiare con pennarelli le copertine originali. Ricordo ancora che in quella MC, la prima canzone del lato B era The Fugitive. Questa, così come la prima track del disco mi entrarono subito in circolo, seguite dalla commovente Afraid to Shoot Strangers e la canzone omonima del disco. Iniziai un ascolto e poi un altro ancora. Fu così per tutto quell'agosto di trent'anni fa. Chiuso nel mio walkman, una forza nuova si stava facendo strade dentro di me, disegnando nuove costellazioni e raccogliendo pezzi di stella abbandonati.
The fugitive, il fuggitivo. Penso di essermi sentito così per molto tempo e una parte di me lo è ancora. In fuga dalle mie debolezze. In fuga da persone spregevoli. In fuga da tutto quello che non rendesse giustizia al mio dolore nascosto. Le prime parole del testo erano così cupe e autunnali, perfettamente in linea con una parte della mia natura. On a cold October morning/ As frost lay on the ground/ Waiting to make my move/ make no sound. Un rock pestato e duro. Sì, in qualche modo gli Iron Maiden diedero il via alla mia fuga "statico-cida". Allentarono catene. Certi dolori non si cancelleranno nemmeno con l'amore di chi ti sta accanto, e lo so bene, e allora, prima del ritornello finale, scandisco queste parole e le faccio nuovamente mie: But if I ever prove/ My innocence some day/ I've got to get them all to make them pay.
Curiosità sul mio rapporto coi Maiden. Ci sono momenti in cui c'è bisogno di fermarsi. Cambiare per ritrovare ciò che si è. Accadde a Bruce Dickinson, partito per diversi e differenti progetti solisti (5), destinati a terminare quando capì che era tempo di ricongiungersi con la sua natura metal. Accadde anche al sottoscritto, che dopo quasi un biennio alla ricerca di sonorità meno datate, ritrovò la perduta via proprio grazie un album degli Iron Maiden, o meglio l'album del ritorno di Bruce Dickinson e Adrian Smith negli Iron Maiden, Brave New World (2000). Prima di chiudere, un ulteriore dettaglio su Fear of the Dark, perché non fu solo la musica a legarmi a questa band, ma anche la componente umana.
Fear of the Dark ha una copertina a dir poco fantastica. Il mostro Eddie prende vita da un albero con una sinistra espressione. Agli sgoccioli di una vita smarrita, mi capitava di vedere spesso una ragazza che indossava una maglietta a manica lunga nera con riprodotta l'intera copertina dell'album. Lì per lì non potevo saperlo, ma nel giro di qualche mese ci conoscemmo, diventammo grandi amici, andando insieme a vedere gli Iron Maiden due volte. Oggi, a distanza di 30 anni dall'uscita di quel disco fantastico, siamo ancora grandi amici, e chissà, magari un giorno, se i Maiden dovessero tornare dalle nostre parti, potremo aggiornate i nostri live. Nell'attesa, mi riconnetto con i miei pochi anni di allora, chiamando al cospetto della mia ispirazione, quello che ho dannatamente dentro e molto di più...
“When I'm walking a dark road/
I am a man who walks alone”
eternità da ruscello,
infanzia tradita... ho cancellato
tutte le vostre traduzioni,
sono rimasto al buio
e ho avuto ancora paura,
non c'erano stelle
né dispersivi buchi neri…sono rimasto
all'ombra del sangue lacerato
… mi sono strappato
le radici... quando le montagne
si sono sbriciolate
non ho voluto spostare
le mie ragioni… dovreste
riconoscermi anche voi,
dovreste farmi sapere
quanta pelle della mia anima
è ancora attaccata
ai vostri coltelli… i passi
si fanno espressioni privatizzate
e personali… a tutte
quelle nuvole
che hanno lasciato libero spazio
ai rigurgiti, non ho rime
ma solo secchi di vernice