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martedì 25 giugno 2019

Mother Love Bone, le star(dog) di Seattle

Mother Love Bone (da sx): B. Fairweather, G. Gilmore, A. Wood, J. Ament e S. Gossard © godssard
Prima di Mudhoney, Nirvana e Pearl Jam, la Seattle del rock è soprattutto Mother Love Bone. Sette anni fa io ci stavo andando e fu così che iniziai ad accordare nuovi sogni condivisi.

di Luca Ferrari

Sette anni esatti fa, il 25 giugno, a quest'ora del giorno mi stavo imbarcando all'aeroporto Marco Polo di Venezia destinazione Seattle. Un viaggio sognato da una via intera. Un viaggio che come ho sempre sottolineato fin dal mio ritorno, non è stato lontanamente ciò che avevo immaginato. Un viaggio che è stato il trionfo dei rapporti umani sulla solitudine del passato. Un viaggio che ha concluso uno di quei cerchi della vita lasciando finestre spalancate, portoni e ancor di più, mani e braccia unite. Io sono andato a Seattle con un'idea e da lì sono tornato con nuove convinzioni e la sensazione (certezza) che la vita, talvolta, sappia essere più profonda delle ombre.

Il primo pezzo di Live on Two Hands è una foto scattata proprio in quel viaggio, a Seattle. Il secondo, sempre da lì, ma questa volta è più un articolo dedicato a "tutti loro". Dedicato a tutte quelle band formatesi nel Nordovest americano che hanno alimentato la mia esistenza culturale. In quel viaggio verso Seattle c'erano tanti demoni che cercavano la propria collocazione. In quel viaggio misi insieme pezzi di mondi che molti anni prima nemmeno immaginavo avrebbero potuto coesistere. In quel viaggio a Seattle, il sangue sgorgato da un passato ancora oggi difficile da accettare, trovò nella felicità della condivisione un nuovo linguaggio e un'indelebile traccia per il domani.

In principio dunque ci fu la musica, e per il sottoscritto nessuno come i Mother Love Bone ha da sempre rappresentato al meglio la città di Seattle, e non a caso lo sfondo di questo blog è dedicato a loro. Più di Mudhoney, Nirvana e Pearl Jam. Forse perché c'erano loro prima di tutti, a eccezione di Mark Arm & soci. E non è un caso che quando stavo tornando col traghetto a Seattle dopo un giro in mezzo alla natura, passando anche per quell'Aberdeen natia di Kurt Cobain, lì, nelle cuffie stessi ascoltando proprio loro. Heartshine, Man of Golden WordsStargazerCrown of Thorns, la decadente-riottosa Gentle Groove e ovviamente lei, Stardog Champion, la prima canzone dei Mother Love Bone che ascoltai.

E non fu un caso che i miei primi e intensi sussulti nel documentario Pearl Jam Twenty (2012, di Cameron Crowe) li ebbi quando partirono le note di This Is Shangrila, facendo apparire la smaliziata "star" Andy Wood e subito dopo il volto sorridente di uno Stone Gossard ancora dannatamente ragazzino. Ecco, quelli erano i Mother Love Bone insieme agli altri tre membri del gruppo: il bassista Jeff Ament, il chitarrista solista Bruce Fairweather e il batterista Greg Gilmore. Quella era la fiaba dolce-metropolitana di uno spiritato gruppo di artisti che voleva lasciare un segno nel mondo e ci riuscì con la propria musica, un tragico destino e un'eredità umana ancora viva nella "smeraldina" semplicità della loro città natale.

Stardog Champion è un sali e scendi di rock allo stato brado, impreziosito da un assolo di chitarre dove il rock sembra davvero risorgere in una nuove veste ruvido-melodica dopo i lustrini e il machismo esasperato degli anni Ottanta. I Mother Love Bone però avevano molte affinità col glam rock, anche se più nell'aspetto che non nel sound, decisamente più figlio dei Led Zeppelin e di sicuro più imparentato con i futuri album dei Soundgarden che non con gli accordi di Poison o Twisted Sisters. Stardog Champion non è solo una canzone, è l'illusione diventata realtà. Riemersa dalle paludi senza ritorno, e pronta a essere intonata verso ogni spazzo di fosco azzurro.

Adesso non starò qui a raccontarvi la storia di questa band o del tragico epilogo del suo talentuoso cantante (1966-1990). Sono qui per condividere una storia. La mia storia insieme ai Mother Love Bone. Quello che mi hanno ispirato. Quello che abbiamo provato insieme . E quando, all'apice di una caduta senza fine, vedevo quei ragazzini danzare con sullo sfondo l'oceano e lo Space Needle di Seattle verso le battute finali del videoclip di Stardog Champion e l'inizio del coro fanciullesco, le ferite si squarciavano convinte che mai ci sarei arrivato. Allo stesso tempo, però qualcosa non smise mai di lottare furiosamente per non dissolversi. Quel qualcosa che sopravvisse fino a portarmi in una città i cui musicisti hanno segnato per sempre la storia della mia vita.


L’ALBA È PIÙ VICINA AL SOLE

Laica preghiera di cristallo, non è solo

una questione di sentimenti
respinti... Questo sono sempre stato io 
e non volevo che sprofondare 
diversamente... A chi tocca 
dare la propria ingloriosa versione? Tocca 
a te nasconderti
senza poter alzare la mano per primo...  

Nei lacci nascosti 
dentro i pugni abbandonati
non ci sono mai state mele 
capaci di indurmi a costruire una strada
di casa... Chi di loro si sarebbe immaginato
un simile sforzo? 
Mi riprendo gli spiriti 
lasciati inorriditi 
tra quadratini senza profezie 
né distorsioni di rappresaglia

Ho pensato di dire 
che anche i desideri abbiano la loro storia
di persecuzioni e tavole rotonde,
e io adesso lo sto sostenendo.
Sento che potrei avere qualche nuovo aneddoto 
da tramandare... 

Non avrei mai voluto tornare, 
ma il mondo non è cosa per chi era abituato 
a vivere senza domani... O almeno
questo era il mio pensiero...  

Torsoli riemersi  

dalle piogge primordiali... Oggi 
non edificherò consolazioni.
Aspetterò quelle antiche e solitarie luci 
del mattino andare oltre
il proprio oceano di tentacoli,
farò nuove amicizie 
e passerò un'intera giornata 
a danzare 
fino a quando non avrò davvero voglia 
di continuare a sorridere... Scenderò 
in cantina e mi siederò davanti 
all'uscio di una nuova abitazione… Farò tutto questo 
insieme a voi, 
mi metterò a piangere 
e poi lo rifarò ancora...  
                                                                                        (Venezia, 25 Giugno 2019)

Stardog Champion,
by Mother Love Bone


Ascoltando il rock dei Mother Love Bone davanti alla "loro" Seattle © Luca Ferrari
Ragazzini danzano sullo sfondo di Seattle (a dx lo Space Needle)
nel videoclip della canzone Stardog Champion dei Mother Love Bone
Seattle, murales in memoria del cantante Andy Wood e i Mother Love Bone © angy_bi

mercoledì 29 maggio 2019

Epic(i) Faith No More

Epic, il cantante Mike Patton (Faith No More)
Nel variegato panorama dei primi anni '90, i Faith No More crearono uno stile inconfondibile e irripetibile. Per informazioni, chiedere al terzo album The Real Thing e la grandiosa Epic.

di Luca Ferrari

Prima un'esplosione musicale, poi il cantato hippoppato anni luce prima dell'esplosione del numetal. Can you feel it, see it, hear it today?/ If you can't, then it doesn't matter anyway/ You will never understand it, cause it happens too fast/ And it feels so good, it's like walking on glass. Era il 1989 e "Mr. Bungle" Mike Patton, nuovo cantante della band crossover Faith No More dopo l'addio di Chuck Mosley, si presenta così al pubblico musicale e a quello televisivo di MTV. Il video va che è una bellezza. La band originaria di San Francisco, stessa patria dei Metallica con cui anni dopo divideranno un mega-tour insieme ai Guns 'n' Roses, s'impongono sotto ogni punto di vista.

The Real Thing, l'album da cui è tratta Epic, alla pari di altri capolavori dell'epoca come Appetite for Distruction (GnR), e i successivi Nevermind (1991, Nirvana), Automatic for the People (1992, R.E.M.) è semplicemente perfetto. Una varietà musicale incredibile, anche nel minutaggio delle canzoni, sfondando addirittura gli 8 minuti con la canzone omonima del disco. Patton si destreggia come un veterano. Bordin macina accordi metal. La base ritmica scrive nuove strade. Chicca, la cover strumentale di War Pigs, dei Black Sabbath. Un segno nel destino, visto che anni dopo Mike Bordin si siederà (anche) dietro i tamburi dell'attività solista di Ozzy Osbourne. Underwater Love ed Edge of the World, paiono scritte per darsi la buona notte con le cuffiette.

C'era un tempo dove molte canzoni venivano tragicamente associate a ricordi pesanti. Epic, grandiosa canzone dei Faith No More, fu una di queste. Risucchiata in una delle peggiori annate della mia esistenza ed emblema di una vita incapace di decollare ma rimanendo sempre invischiata in una melma commestibile solo all'apatia mentale. Di epico in quel momento non c'era nulla. Anche se il calendario dovette aspettare solo un anno per farle cambiare volto, fu una vera eternità ma la riscossa fu grandiosa e così accadde che in una trasferta solitaria alla scoperta dell'arte di Firenze, una grandiosa versione live di Epic mi accompagnò nei miei primi passi fuori dalla stazione di Santa Maria Novella.

Fu un nuovo inizio e da quel momento i Faith No More divennero simbolo di novità nella mia vita, associando dunque la loro grandiosa musica anche allo scorrere del presente. Da allora non sono più tornato indietro e quando la voce di Mike Patton accompagnata dal rock heavy metal di Jim Martin (che indossa una maglia in memoria del bassista dei Metallica, Cliff Burton. deceduto nel 1986 in un incidente), le tastiere di Roddy Bottum, il basso di Bill Gould e l'esplosiva batteria di Mike Bordin, è pura adrenalina. Giusto l'altro ieri, verso la mia fine del mio rock-jogging settimanale, ecco arrivare lei, Epic dei Faith No More. Una sferzata di adrenalina possente.

It's magic, it's tragic, it's a loss, it's a win... Si, esattamente. Ancora una volta, It's magic, it's tragic, it's a loss, it's a win ma questa volta lo afferro, cavolo se ci riuscirò. Fanculo se ci riuscirò, insieme al rock unico dei Faith No More.


QUESTIONI DI FEDE 

Latrati paludosi,
questa è la mia marcia… questo
è il mio cammino,
non c’è notte
e non farò altre considerazioni
su uno dei tanti mezzogiorni
dai duelli raggrinziti

Chi ho davanti a me?
Chi c’è alla fine di questo pediluvio lessicale?
… Ignoro cosa sia il mondo
perché nessuno me lo ha mai
raccontato

è facile far galleggiare
le parole col sole
quando l’immediato passato
è un cruciverba dimenticato 
senza neppure
una stazione cui addossare le colpe
della propria apatia

Ho ancora le mani conficcate
in liquidi oleosi… Ho ancora
i canini allineati
ad alveari di passaggio… Sento
ancora una deriva
incontrollata e sarei troppo ottimista
se mi facessi raffigurare
con un’impresa
nel mio prossimo dettato..-
Non posso rispondere
a tutte le tue uniche domande
per la mia passata
eternità… devo andarmene via
anche oggi,
prendi pure l’indecisione
che vuoi della mia sincerità,
seducila fino a darle un nome
e anche se non lo saprai mai,
quel domani di un dito nel cuore
è esattamente qui e ora
(Venezia, 29 Maggio ’19) 

Epic, music video by Faith No More


Epic, music video by Faith No More
Epic, music video by Faith No More
Epic, le mani e la chitarra di Jim Martin (Faith No More)
Epic, il tastierista Roddy Bottum (Faith No More)
Epic, il batterista Mike Bordin (Faith No More)

sabato 11 maggio 2019

Souljourners, il corvo vendicatore

The Avenger, by Souljourner
The Avenger (2008, Souljourners) è l'emblema musicale del cult generazionale e maledetto, The Crow (1994, di Alex Proyas), ancor più della grandiosa colonna sonora del film.

di Luca Ferrari

Vittime, non lo siamo tutti? domandava un indemoniato Eric Draven (Brandon Lee). Ricordo ancora il trailer in quel dannato 1994. Lo spettro dell'attore protagonista, figlio del celebre Bruce, anch'esso morto sul set, sembrava essersi reincarnarsi nel recente suicidio del cantante-chitarrista dei Nirvana, Kurt Cobain. E lui, Eric Draven, tornava in vita come una sorta di vendicatore biblico cui era stata concessa l'immortalità mediante un corvo col compito di fare piazza pulita di tutti gli assassini suoi e dell'amata promessa sposa, Shelly.

Potrà sembrare assurdo ma non è una canzone della colonna sonora ad aver immortalato questo film nella mia memoria. Né il capolavoro Burn dei Cure né la tragica Big Empty degli Stone Temple Pilots o l'evocativa It Can't Rain All The Time di Jane Siberry. La band in questione è l'indie rock Souljourners e la canzone è The Avenger (2008)., scoperta attraverso un contatto d'oltreoceano, che mi piacque fin da subito, e il cui video mi avvicinò ulteriormente all'anima martoriata di quell'Eric, vittima innocente e spietato vendicatore suo malgrado.

LA SOFFERENTE L’ETERNITÀ DELLE OMBRE

Storie che non si devono
solo scrivere… Storie
che non troveranno mai pace… Storie
senza inganni
né putrefazioni… Storie sgorgate
dai propri pugnali
estratti… Storie mutate
nell’accettazione
del proprio decesso… Storie
ancora una volta
ricoperte di quelle lacrime
sacrificate
sull’altare del nostro indifferente
domani… Sono in prossimità
della mia fine
e nessuno vuole partecipare
a questo show… Alla mia morte
vi dirà qualcosa,
forse è tardi
per confondere un ragionamento
con il richiamo
della vendetta… Guardatevi
intorno, le cicatrici
non sono mai scomparse… Guardatevi
bene intorno,
chi è stato vittima
non smetterà
mai di sanguinare e anche quando
sarà finita
si chiederà ancora perché… Mi
sfugge il senso della vita
quando la notte
se ne sta appollaiata
in un crescendo
di inesorabile maledizione… Incomprensione
senza boulevard di uscita
Cammino sempre veloce
per non far vedere
che dovrei essere più lento
per le lame che ancora
penzolano dentro le mie ferite…
Fatemi spazio... Fate spazio
ai graffi della morte
e l'innocente sguardo di chi è ancora
in vita
(Venezia, 11 Maggio ’19)

Souljourners, The Avenger

martedì 30 aprile 2019

Rape Me, stuprami e colpisci ancora

Kurt Cobain (1967-1994), cantante-chitarrista dei Nirvana
Il branco umilia e colpisce fino a uccidere. "Fallo ancora... Un giorno toccherà anche a te" tramanda l'urlo sensibile di Kurt Cobain. Una promessa vendicativa contro la macho-feccia.

di Luca Ferrari

Era l'autunno 1993 e nel mercato discografico sbarcò il nuovo album dei Nirvana, In Utero. Prima canzone a finire sul banco dei testimoni, Rape Me, letteralmente "stuprami", dove il cantante Kurt Cobain venne accusato (lui!, ndr) di incitare alla violenza, travisando letteralmente il significato del testo. Lui, cresciuto nell'atmosfera maschilista di Aberdeen (Wa) dove fu bullizzato, tradusse il tutto in una minaccia vendicativa: "Stuprami, fallo e fallo ancora... Un giorno toccherà anche a te". 26 anni dopo Rape me, le bestie sono ancora lì fuori, pronte ad assalire il singolo. 26 anni dopo la cultura vigente è ancora quella del branco contro il solo.

Ultimo caso di aberrante violenza, un oltre sessantenne tormentato fino alla morte. Ultimo caso di volgare violenza del branco, un gruppo di stupidi e annoiati ragazzetti, maggioranza dei quali minorenni, che si divertivano a mortificare e picchiare un uomo solo, riprendendolo anche coi telefoni e facendo girare i video in cui veniva umiliato. In provincia di Taranto, a Manduria, il 66enne Antonio Stano è morto nell'indifferenza collettiva dei tanti, tutti, che si sono girati dall'altra parte. Antonio Stano è morto nel segno del branco più stupido e ignorante. Di Antonio Stano non importava niente a nessuno. Chiuso nel dolore e nella paura di raccontare ciò che gli stava accadendo, esattamente come avviene per gli adolescenti, e oggi quest'uomo è morto.


ABUSAMI ANCORA

Non ho commenti,
rosee gabbie avvicinano la ruggine
alla terra spintonata e manomessa... Non 
mi servono giudizi, l'oscurità 
esige i suoi tributi e non c'è nessuno 
a fermare la saliva del dolore

Non mi serve la vostra commozione
né le candele sulle nuche capovolte,
quelli là
li voglio tutti davanti a me

Vuoi essere il prossimo?
Vorresti essere la loro prossima
vittima? Se hai una debolezza
ti troveranno... Quando sarai
solo, ti circonderanno...

Io lo sono già stato...
Io ci sono già stato...
Hanno visto tutti
e nessuno mi ha più rivolto la parola

Hanno fatto a pezzi
i miei desideri... Hanno catturato il mio sangue
e ne hanno fatto
acqua alcolica per pavoni in gabbia

Non c'è coscienza,
non c'è reazione... Non c'è resurrezione,
non c'è domani...

I mostri lì fuori
sono le paure con cui invalidare
i nostri abusi taciuti... Oggi
è stato il suo turno, adesso
e tra un secondo quello di un'altra e un altro
ancora... E tutti gli altri,
che cosa stiamo facendo?
Vi aspetto tutti... Io, la mia vendetta
e chiunque la voglia vedere da vicino
(Venezia, 30 Aprile '19)

Rape Me, performance live by Nirvana

lunedì 15 aprile 2019

Layne Staley, amico mio

Alice in Chains - Layne Staley e Jerry Cantrell nel videoclip di No Excuses
Voce fatua e tormentata. Un sibilo ringhiante nell'oscurità. A 17 anni dalla sua tragica morte, la musica di Layne Staley continua a immobilizzare demoni e sviscerare sanguinanti emozioni.

di Luca Ferrari

"You my friend/ I will defend/ And if we change/, well I love you anyway" - "Tu amico mio, io ti difenderò e se cambieremo, ti vorrò bene lo stesso". Cantava così il compianto Layne Staley (1967-2002) nella poeticamente malinconica No Excuses, tratta dall'EP Jar of Flies (1994). Più di tante altre canzoni, cunicoli scorticati dalla disperazione, questa song ha sempre rappresentato la quiete capace di guardare in faccia e con indiscussa onestà, tutto il nero del mondo e della tempesta inevitabile in arrivo. Al pari del suo collega Kurt Cobain (Nirvana), morto per una tragica fatalità lo stesso giorno di pochi anni prima (1994), Layne Staley sapeva parlare al mondo con lacrimosa sincerità. Un 5 aprile 2019 questo che difficilmente dimenticheremo vista l'improvvisa dipartita di Shawn Smith, voce dei Brad al fianco di Stone Gossard.

Alla giovane età di 35 anni, Layne Staley, cantante degli Alice in Chains, si spense dopo l'ennesimo e micidiale mix di sostanze. Una morte quasi scontata viste le sue precarie condizioni di salute ed esasperate negli eccessi. Puntuale anche quest'anno il mondo dei social lo ha ricordato, postando in particolare videoclip tratti dall'Unplugged in New York, per molti appassionati il migliore in assoluto di quella tipologia, e dal live al More Theatre con i Made Season, side-project condiviso col chitarrista dei Pearl Jam, Mike McCready. Non sarò certo io a svilire i suddetti due concerti ma se devo pensare a Layne, mi lascio da parte tutto questo, entrando in empatica sintonia con la sopracitata No Excuses. Manifesto silenzioso dell'inesorabilità della sofferenza e accettazione di ciò che bisognerà affrontare, senza scuse per l'appunto, né incolpando nessuno.


IN ETERNA E DILANIATA CONFIDENZA 

In piedi sullo sgabello,
non sto guardando il mondo
né ammirando le barchette
che qualcuno domani
lascerà naufragare… In piedi
sulle mie braccia, esili pianificazioni
dell’immediato
si sommano a parole, e
nessuno possiede la volontà
di scendere ustione dopo ustione…

Anche se potrebbe essere
rovinosamente felice
non mi calerò sopra i tetti
a diagnosticare
una facile dispersione dei miei occhi

Ho fatto incetta
di privilegi, e adesso
nessuno mi riconosce… Ho
preso le bolle di sapone
e ci ho messo dentro un canestro
istruito da movimenti
al limite dell’onirico… Avresti
qualcosa da gridare
o ti stai limitando a fare del tuo ruolo
una sagoma
pronta per la vivisezione?

Hai le mie mani davanti,
che cosa dovrei ancora fare?
Non ho bisogno di nuove
convinzioni, voglio solo colorarmi
di una strada sicura... Farò così,
e poi renderò visibile
la via del ritorno. Ti starò vicino
e mi ricorderò sempre
di te. È stata colpa mia,
ma questo non mi basterà mai… Ti
resterò vicino
e un giorno anche noi
avremo la nostra pace 
(Venezia, 15 Aprile ’19)

No Excuses, by Alice in Chains

Alice in Chains - Layne Staley e Jerry Cantrell nel videoclip di No Excuses

venerdì 5 aprile 2019

Nirvana, tutto in una notte

Kurt Cobain durante il concerto Uplugged dei Nirvana © Luca Ferrari
E fu così che un giorno la musica dei Nirvana mi tornò in circolo. Ci voleva una serata strana e commemorativa. Ci voleva un amico con cui condividere autentiche note di verità.

di Luca Ferrari

Musicalmente parlando la mia vita può essere divisa in due iniziali tronconi, l'era pre-Nirvana e l'epopea segnata dalle canzoni dalle band di Seattle. Fu il rock rabbiosamente sensibile del loro leader Kurt Cobain a sobbarcarsi tutte le cicatrici che chiedevano l'onestà della luce del sole. Furono i loro testi a gridare al mondo che da quel momento non sarei più potuto tornare indietro. Fu il violento suicidio di Kurt a tatuarmi nell'anima una promessa eterna con me stesso. Ecco, per tutte queste e molte altre ragioni, non fu mai facile continuare ad ascoltare questa band negli anni a venire. Un vecchio cuore custodito in attesa di risorgere e cominciare un nuovo capitolo sempre nel segno dell'onestà.

Dai giorni in cui nel mio walk-man imperversavano i Nirvana sono passati molti anni, più di quelli che avrei mai immaginato e sono perfino successe cose a tratti impensabili. Se altre band della città simbolo del Nordovest americano trovarono una collocazione nel presente, i Pearl Jam su tutti diventando poi l'emblema della mia seconda era musicale e per certi versi il gruppo che ha attraversato tutta la mia vita, i Nirvana sono sempre rimasti nel passato. Per questi ultimo è stato così  fino a ieri. A 25 anni dalla morte del cantante di Aberdeen, sul canale VH1 è stato trasmesso il concerto Unplugged di New York dei Nirvana. Ma questo per me non sarebbe potuto bastare. La musica non è mai stata sufficiente.

Sul canale televisivo rimbalzano i video di quelle band che fecero la Storia del rock anni Novanta. Vedo gli ultimi spezzono della possente Rusty Cage (Soundgarden) e subito dopo la giocosa Sliver proprio dei Nirvana. Io sono lontano da tutto questo ma i miei passi cominciano a farsi sempre più spediti. Un amico nel frattempo inizia a farsi sentire col moderno Whatsapp. Quelli che sono in principio pochi commenti musicali diventano una conversazione in piena. Messaggio dopo messaggio, come due adolescenti al telefono che si guardano per la prima volta i video di MTV, seguiamo in parallelo il concerto acustico tra aneddoti e ricordi. E' una nuova alba. La storia dei Nirvana ricomincia.

Oggi, 5 aprile 2019, è cominciata una nuova epoca della musica di Kurt Cobain, Chris Novoselic e Dave Grohl. Da ieri ho un nuovo primo ricordo della musica dei Nirvana.


TUTTO IN UNA NUOVA NOTTE
  
Certezza disadattata… Questa
è anche la tua storia,
spiaccicata… Ripresa… Recondita…
Attorniata… ricomincio
da un armadio aperto, una fiaba
e una danza notturna tra candele, 
soffici sogni 
e silenzi condivisi… 

Gabbie affamate di sofferenza
censurata… Sangue bisognoso 
di placare qualsiasi remota ipotesi 
di ulteriori appartenenze aliene… 
Ero consapevole
del mio degrado… Ero lucido, e ci rimasi
fin da sempre… Facevo su e giù
dal precipizio,
senza che nessuno mi trovasse comunque
in fondo alla fine… Sono
stato fermo sull’ultimo gradino
del verso che non vedete,
sono stato immobile
dove la tempesta
batteva per derisione e consuetudine
volute… Ho dovuto
quasi rinunciare alla mia vita
per essere sicuro
che ciò che mi era accaduto
avrebbe sempre fatto parte della mia 
esistenza… Facevo
su e giù con la testa e la bassa marea,
quando tornavo in superficie
le case non avevano
più le nuvole accanto a loro

Che cosa te ne fai della primavera
quando l’inverno
non si rigenera nemmeno con la pioggia
Siamo arrivati a questa notte… un'emozione
dopo l’altra...
(Luca feat. Omar, Venezia/Treviso, 5 Aprile ’19)

Lake of Fire (Unplugged), by Nirvana

Kurt Cobain durante il concerto Uplugged dei Nirvana © Luca Ferrari

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