Il sound genuino della rock band svedese Donna Cannone è pronto per farsi conoscere al grande pubblico. Dopo i primi due singoli, nel 2022 uscirà l'album di debutto.
Due amici si ritrovano e iniziano a strimpellare. L'entusiasmo prende il sopravvento e scatta la sacra scintilla del rock. Il duo diventa un quartetto, ognuno col suo strumento (basso, chitarre, batteria). La genesi della rock band svedese Donna Cannoneè tanto semplice quanto naturale. Formatisi a Stoccolma due anni or sono, tutti i membri vengono da importanti presenze nella scena rock scandinava (e non solo). Scrivono e suonano. La band inizia a farsi strada. Intervistati di recente sulla celebre rivista Metal Hammer, guardano al futuro con ottimismo e convinzione.
Quattro i componenti della band: la chitarrista Giorgia “Jo” Carteri, la batteritsa Tilda Nilke Nordlund, entrambe ex Thundermother, il cantante-bassista Luca D’Andria (ex Cowboy Prostitutes) e il chitarrista solista Bjorn Strid (Soilwork, The Night Flight Orchestra). Nei giorni scorsi si sarebbero dovuti esibire allo Stockholm Rock Out in compagnia di personaggi del calibro della mitica cantante heavy metal tedesca Doro, l'altrettanto leggendario cantante finlandese degli Hanoi Rocks, Michael Monroe, e poi i Crashdiet, Crazy Lixx e la cantante gallese Chez Cane. Tutto rinviato all'anno prossimo (16-17 dicembre 2022).
Era da un po' che tenevo d'occhio questa band e lo scorso agosto, dopo l'ottimo singolo di debutto Cross the Line, ho atteso incuriosito l'uscita del nuovo singolo. Pubblicato il video sul canale Youtube dell'etichetta svedese a cui si sono legati, la Despotz Records, l'ho personalmente inaugurata correndo all'alba sul lungomare di Schiavonea (Cs), davanti allo Ionio calabrese. Fin dal primo ascolto, praticamente senza guardare il video ma solo ascoltandola, ho subito provato una sensazione di benessere, che si amalgamava col panorama naturale marino, in un mix di sonorità che a tratti mi ricordavano Helloweene i primi Guns n' Rosesdi Appetite for Distruction, in certi riff.
Quattro mesi dopo sono ancora on the road, questa volta nella mia natia Venezia, correndo su e giù per fondamenta e campielli, pompandomi di pura adrenalina rock. Da qualche mese ormai nelle mie variegate playlist capaci di spaziare dai Pearl Jam a Michael Schenker, passando (anche) per Neil Young, Alice Cooper e The Cranberries, ormai ci sono anche loro, i Donna Cannone. In attesa di ascoltare presto il loro debut-album, sembra previsto per il 2022, auguro il meglio a questa band, in attesa di vederli anche dal vivo da qualche parte nel mondo. Ora è arrivato il mio turno di farmi ispirare dalla musica dei Donna Cannone e il loro ultimo singolo Nothing to Do:
COLLISIONI SENZA LIMITI
Ho viaggiato, inseguendo
il cielo... allo scoperto… lo sapevi,
ho perfezionato i colori
delle mie dita... Posso
ancora inciampareliberamente
...
mi sono concentrato,
è stata una rivelazione o la sintesi di una caduta?
.... Vedo l’oceano
ridere a gran voce,
ci sono le sue domande... ci sono
le mie soste... quelle giuste,
quelle prigioniere... quelle invulnerabili
Voglio dirti, è tardi per un sortilegio
che non preveda
una parola e la nostra simultanea
auto-immedesimazione?
Le stesse battaglie di una volta
oggi sono aceri
e sensazioni millimetriche di labirinti
Un altro passo, e poi
un'amichevole collusione ancora…
Sento il mormorio
di un'alba diradata, e questa
è la cicatrice
di ciò che gli altri chiamano silenzio
prendere/ perdersi...
le salite che vedi attorno ai miei tasche
è l'amore
che non ho mai voluto nascondere
Un grattacielo, una caverna,
un albero distante… Ho dimenticato
il monopolio degli specchi
perché non ci ho mai creduto...non mi disturbi
se vorrai correre... cammineremo
insieme alle mongolfiere
Ho aspettato più di un anno e mezzo per ascoltare Gigaton (2020), l'11° album dei Pearl Jam. Ed ecco subito Dance of the Clairvoyant ispirare un nuovo sentiero compositivo.
di Luca Ferrari No, non mi era ancora mai capitato. Non mi era mai capitata "una cosa così", con "loro": i Pearl Jam, la band che ha sempre accompagnato la mia vita. Da quando ho memoria dei rocker di Seattle, quanto mai avrò aspettato prima di ascoltare un loro nuovo disco? Forse una settimana, non di più, incluso il penultimo Lightning Bolt(2013). Questa volta invece, sono trascorsi un anno e nove mesi. Un'eternità! Non ero pronto. Non ne avevo voglia. Non ero mensilmente connessi. Gigaton è sbarcato in Italia il 27 marzo 2020, oggi invece è il 27 dicembre 2021 e lo sto ascoltando da neanche un giorno. Mi è bastato un ascolto ed ecco subito "trovare" un'emozione in perfetta sintonia umano-sonora per mettermi alla tastiera e scrivere qualcosa di impetuoso e imprevisto.
Rewind. Uscito l'11° album dei Pearl Jam, il mondo dei social si scatena subito. Follower della pagina Facebook di pearljamonline.it, inizio a leggere commenti: si va dal cieco entusiasmo a chi consiglia la pensione alla band di Seattle. Tirando un po' le somme, non mi aspettavo granché ma fin dal primo ascolto resto piacevolmente colpito, e soprattutto mi faccio una domanda: che cosa si può chiedere a una band in pista da trent'anni, capace di sfornare album e canzoni capolavoro, sfuggire a qualsiasi etichetta riuscendo sempre a mantenere un'integrità artistica (quasi) unica? Se nel 2021 vedessi un Vedder scimmiottare il se stesso con lyrics e atteggiamenti "young", allora sì che mi sentirei deluso.
Ascolto il disco. Nessun album mi ha mai conquistato dal primo ascolto, nemmeno quelli che adoro alla follia come Vitalogy (1994), restando in casa Pearl Jam, o In Utero (1993) dei Nirvanache per qualità testi è 100 spanne superiore a Nevermind. Tornando a Gigaton, alcune mi canzoni mi entrano subito in circolo, altre le dovrò ascoltare ancora! Le ultime mi sembrano molto influenzate dalla direzione solista del cantante, che per quanto non mi faccia impazzire, ha una sua logica. Ricordo commenti poco lusinghieri quando uscì No Code (1996), oggi uno degli album più amati. Inizio il secondo ascolto. La nuova musica dei Pearl Jam inizia a muoversi dentro di me. Il resto è il presente più istintivamente "creato"...
INSIEME... CASO PER CASA
L'angolo allargato... ricettatori
di sproloqui, assassini d'ironia
giocattolaia... è bastata una parola,
un’immagine… un calore
che hanno dato via… lo
sto guardando, ed è la sua vita,
è la sua ambientazione umana
... sono i suoi occhi,
zolle che non dovrebbero mai regolamentarsi
Non li chiama mai per nome,
tutto è subito mutato in un infinito legame vero
previsioni… interpretazioni… uno st(r)ato
di perfezione da controllare... lo staranno
davvero pensando?
Avreste mai sussurrato
le medesime traduzioni
al più piccolo ricordo di voi stessi?
c’è una roccia in mezzo al mare,
ci sono scie di energie e gocce che risalgono albe
Zucchero e Maurizio Vandelli in ...e così viene Natale (Adelmo e i suoi Sorapis)
E così viene natale... anche sta volta. Le vie della musica sono infinite. Per me non è davvero natale senza canticchiare la magia del 25 dicembre insieme ad Adelmo e i suoi Sorapis.
Sarà la mia innata tendenza all'happy end, causa ovviamente di atroci delusioni e implosioni sentimentali, ma la canzone "... e così viene natale" del super-gruppo Adelmo e i suoi Sorapis, l'ho sempre trovata perfetta per la mia anima ferita. A ben guardare però, nulla avrebbe dovuto farmi avvicinare, a cominciare dall'ambientazione, una discoteca, una tipologia di locale che sono fiero di dire, non ho mai frequentato nemmeno una volta in vita mia. I protagonisti della band? Zucchero, di cui conosco sì e no 2-3 canzoni. Maurizio Vandelli (ex Equipe 84), ricordi dell'estate 1989 con il programma "Una rotonda sul mare". I Pooh? Mai ascoltati in vita mia. Ecco, nonostante tutte queste premesse, non c'è natale che non me la ascolti almeno una volta, guardandomi il video.
Ha tutto inizio con il titolare del locale che ferma l'ennesimo tunz-tunz-tunz per annunciare che una band suonerà dal vivo una canzone, cosa per niente apprezzata dai presenti che rispondono con fischi e disapprovazione. Ecco allora il mondo del facile sballo: chi spaccia, chi compra, chi ha già bevuto/sta bevendo troppo, e chi non si fa problemi a lanciare sarde (sguardi) nonostante sia già in dolce compagnia. Da tutto questo ne nasce una rissa collettiva, donne contro donne e uomini contro uomini. Lì, nel mezzo, altri personaggi alla ricerca di qualcosa che gli dia (forse) un motivo per avere speranza, su tutti una ragazzina al bancone che ricorda la campionessa di nuoto, Federica Pellegrini (non me ne voglia l'atleta).
Ho sempre amato le collaborazioni con stili differenti, per cui forse vedere quelli là tutti insieme sul palco, mi ha messo nella giusta condizione di ascolto. L'atmosfera inizia tesa e frame dopo frame, si scalda sempre di più in totale controtendenza rispetto al natale. Litigano i fidanzati. Partono risse tra uomini e donne. Pugni che volano, schiaffoni e tavolini fracassati e poi? Può finire così una canzone di natale? Può davvero finire così una canzone che celebra quella festa che, sotto sotto, a tutti piacerebbe vivere nel migliore dei modi? No, non può ed ecco allora dal soffitto, aprirsi una botola e... e guardatevi il video! Lo farò anche io, per l'ennesima volta. Adesso però mi farò davvero ispirare:
IL JINGLE LO SCRIVO CON TE
non c’era nemmeno
una coperta
perché potessi cadere
e restare un po’ immobile… seguo
la corrente
di un ruscello che ha insonorizzato
gli spari
delle macho-frustrazioni…Non
ci sarei mai potuto essere
lì nel mezzo… Avevo
già provato
a testare la resistenza
di una staccionata
con troppa poca fiducia
in ciò che l’universo
fosse pronto a rispondermi… E
che potevo fare,
non ero nemmeno rassegnato
quando si trattava di ascoltarmi
… le tante finestre aperte
si sono approvvigionate
con esperimenti gestuali
di benvenuto… Il colore
di una valigia
era tutto quello che potevo permettermi,
e forse un lavoro
come risponditore di lettere
indirizzate anche a te
…
è troppo lontano
il Polo Nord, anche per una notte
come queste… mi accontenterei
di un passaggio
sul dorso di qualche sperduto
che cosa… Ma tu li sai
davvero i perché
della nostra spensierata
solitudine? Adesso
sto per chiudere
gli occhi, ma voglio che tu sappia
che l’amore
delle nostre lacrime
continuerà anche domani…
(Venezia, 23 Dicembre ‘21)
E così viene Natale, di Adelmo e i suoi Sorapis
Due protagonisti del video ...e così viene Natale (Adelmo e i suoi Sorapis)
Possente e senza speranza. C'è solo violenza e prevaricazione nel mondo che stiamo consegnando ai nostri figli, o no? Ricomincio dal nu metal dei Korn e Here to Stay.
Marilyn Manson nel videoclip della canzone Coma White
Marilyn Manson colpisce l'ipocrisia di una società sfacciata, capace di nascondere i peggiori crimini sociali e mostrandosi sempre più immacolata agli occhi del mondo.
Dietro le troppe maschere dell'ipocrisia delle società, si nascondono i peggiori mostri. Quelli capaci di ignorare la luce del sole purché non metta in discussione la propria immagine di presunta perfezione. Succedeva in passato Succede ancora oggi, anche nelle società post-moderne dove crediamo di essere liberi. Ancora vogliamo (volete) che i nostri figli siano l'orgoglio delle nostre vite, spingendoli verso scelte che noi approviamo ma quando non succede, ecco l'indifferenza e il silenzio. Pochi artisti come Marilyn Manson seppero attaccare questo mal costume, facendo del proprio "mostruoso" aspetto una sfida a viso aperto contro l'omertà dilagante che lascia i più deboli al macero.
Dopo il gothic di Antichrist Supersrtar (1995), Marilyn Manson si gettò nella dimensione più glam, dando alla luce Mechanical Animals(1998), dove comunque regnava un'atmosfera trasudante oscurità, come chiaramente emergeva nella possente Rock is Dead o la malinconica Speed of Pain. La canzone scelta per chiudere il terzo album della band, fu Coma White, nel cui video si alternano scene live della band a un'impersonificazione di MM nei panni di John Kennedy durante il suo assassinio a Dallas, e l'allora fidanzata, l'attrice Rose McGowan in quelli della moglie del Presidente, Jacqueline.
Ho scelto di scrivere qualcosa di questa canzone proprio a ridosso del natale per una ragione molto precisa, quella dei regali. E il regalo più grande che possiamo fare a noi stessi e ai nostri figli è il futuro. Un futuro migliore. Un futuro che in tanti, anche le persone più inimmaginabili, mineranno per il proprio egoismo. Un futuro che sarà messo all'angolo da un mondo che in principio potrà sembrarci bello ma , poi... "You were from a perfect world/ A world that threw me away today, today, today" (Coma White). Le droghe non sono solo le sostanze, è anche la quotidianità più tossica, invadente e letale. Ed è per questo che i versi di Coma White cantati da Marilyn Manson, sono un po' la storia di molti di noi...
IN PIENA COSCIENZA DIVISORIA
… e quelli credono ancora
che il suo peggiore incubo
sia stata una pagina
piena di traduzioni grammaticali
... e quelli credono ancora
che la sua peggior esperienza
sia stata una parentesi
riempita di pagine ingiallite a casaccio
e intanto l’angoscia
gli stava risucchiando gli occhi
senza luce né una stanza
dove nascondersi
dal cielo..
… e dopo una vita passata
a nascondere le sue cicatrici,
ha scoperto
che c’è ancora chi crede
che le sue lacrime
siano la media
di qualche catastrofica annotazione
… e dopo una vita passata
a graffiare la pelle dalle bombe
rimaste attaccate
alle caviglie, ha scoperto
che tutti quelli che lo videro indietreggiare
sotto terra
sono gli stessi
che non hanno voluto
toccare il palmo delle sue mani
solo perché
c’erano troppe poche cavallette intorno
agli steli strappati
nelle segrete
delle sue più familiari umiliazioni,
mai avrebbe pensato
che le sue urla un giorno potessero
essere risvegliate
dalla più vivida immagine
di un addio non ancora ultimato... (Lido di Venezia, 10 dicembre/ Venezia, 15 dicembre ‘21)
Il cantautore romano Francesco De Gregori nel videoclip di L'agnello di Dio
Ci sono canzoni "natalizie" semplicemente perché le abbiamo ascoltate per la prima volta in quel periodo dell'anno. Per me è il caso di L'agnello di Dio, di Francesco De Gregori.
Eeeeco l'agnello di Dio, che nessuno può salvare... è una delle tante strofe di una canzone del cantautore romano, Francesco de Gregori, che in un inverno di fine anni Novanta, entrarono facilmente in circolo, complice anche l'atmosfera molto cupa del video e una cavalcata melodica tra oscurità e salvezza. Quei due lati dell'anima umana, a quell'epoca così violenti e sovrapponibili dentro di me. Come già accaduto in passato per artisti pochissimo ascoltati, eccoli d'improvviso guadagnarsi un posto speciale nei miei pensieri e nelle elucubrazioni più sincere. E quando si avvicina il natale e il buio si prende i titoli di testa, nel mio smartphone attacca la chitarra di De Gregori e il suo Agnello di Dio.
Layne Staley (Alice in Chains) nel videoclip di Angry Chair
L'oscurità si fa largo senza ritorno. Non so che farmene del vostro conforto. Sono solo come una sedia incazzata. Questa è la tragica ora di Angry Chair (Alice in Chains).
Anime spettrali sbattono la porta in faccia alla luce per sempre. Non c'è ritorno da questo viaggio nella disperazione. Dimenticate il calore di un abbraccio. Dite addio per sempre a una lacrima capace di consolare. Siamo sprofondati nelle viscere della terra e ci vorrà parecchio prima che il cielo torni a essere un luogo di speranza e stelle luminose. L'ora è tarda e io sto ancora scrivendo. Non posso dirvi la ragione ma voglio ugualmente condividere qualcosa. Io ci sono stato ai confini dei due regni e ho lottato per non fare l'ultimo passo. Adesso il mondo è cambiato ma su quella sedia so di essere stato intrappolato. Amici Alice in Chains, affido ad Angry Chair tutto il mio silenzioso dolore.
Diversi dalle altre celebri compagini di Seattle, la band realizzò il primo album Facelift (1990), dimostrando di saper fondere in modo atipico heavy metal e rock di rara intensità dark. Il successivo album Dirt (1992) esplorò ancora di più il lato oscuro della band, con un sound che non lasciava speranza, e delle lyrics al limite del baratro affidate all'inquiete vocalità di Layne Staley e alle sei corde rabbioso-piangenti di Jerry Cantrell. A tutto questo, si aggiungano le atmosfere dei videoclip: vere e proprie incursioni oltre il buio più desolatamente luminoso:
"[...]What do I see across the way, hey? See myself molded in clay, oh Stares at me, yeah, I'm afraid Changing the shape of his face... [...] ... [...] Loneliness is not a phase Field of pain is where I graze Serenity is far away Saw my reflection and cried So little hope that I died, oh Feed me your lies, open wide, hey Weight of my heart, not the size, oh [...] Angry Chari - Alice in Chains
Riavvolgo la memoria. Espando le mie longitudini oltre i finti steccati e resistenze. In un lontano dicembre 1995 comprai la cassetta originale di Dirt. Se Would? fu l'apripista, Rooster marchiò il dolore e la forza in unico grande legame, Down in a Hole segnò una discesa senza fine, allora Angry Chair stracciò tutto quello che sapevo sulle albe interrotte. Una percezione visiva in perfetta somiglianza con parole e chitarre gravose. Non c'era più tempo per giocare. Non volevo più giocare. Non ne volevo più sapere di cosa si celasse dentro indistinguibili tonalità. Il cotone della ferita scheggiò il sentiero risuonando nell'alta quota. Ci fu l'ennesima corsa a perdifiato verso il precipizio, e l'appunto che un giorno il mio riflesso non sarebbe stato così passeggero...
QUANDO IL GIORNO SARA' PRONTO NUOVAMENTE
Fiumi riemergono
come pezzi di fango essiccati
... a quel sole
non avevo più nulla da comunicare
Quel mondo
aveva perduto il diritto
di sedersi accanto
anche davanti alla più placida
delle preghiere
Adesso si conclude
la sua condanna… Adesso
qualcuno troverà la pace
dimenticata per sempre
Che fine hanno quegli alberi...
dove ci siamo nascosti?
Che fine hanno fatto quelle rocce
che dovevano solo farci ombra?
Nel vuoto
della nostra esistenza
abbiamo dimenticato
a cosa servissero davvero
le mani
la frutta delle magliette... le
gocce sopra gli occhi
al momento di fingere di manifestare
che senso ha dirsi addio
quando non potremo nemmeno
ripensare a un brindisi
che ci vide spropositati avversari?
Mi ricordo che… Riesco ancora
a vedere e… Potremmo
andare… Non c’è stato più tempo
per...
i segreti mi hanno reso schiavo
di ciò che non ho mai smesso
di impugnare… Non
sento più il cuore battere
… non avrò mai abbastanza vite
per dirti addio
(Venezia, 7 Dicembre 21)
Contessa sono le idee che lotteranno per sempre contro ogni ingiustizia sociale. Contessa sono quelle amicizie che sanno ancora intonare ricordi e speranze. RIP Paolo Pietrangeli!
Le lotte "rosse" di un tempo piangono Paolo Pietrangeli (Roma, 1945-2021), autore e interprete dell'immortale Contessa, riproposta e resa ancor più celebre dal cantautore emiliano Francesco Guccini e la band dei Modena City Ramblers. Il mio vissuto mi ha portato molto tardi a scoprire questa canzone, quando noi, figli di Repubbliche Marinare differenti, c'incontrammo nella 'ulla del Rinascimento. Ancora oggi ripensiamo a quei giorni, cantando decisi le strofe rivoluzionarie di Contessa in un presente dove magari andiamo tutti all'università, ma sul fronte dei diritti dei lavoratori abbiamo fatto decisivi balzi indietro.
"[...]ma se questo è il prezzo lo abbiamo pagato, nessuno più al mondo dev'essere sfruttato [...]", sono le belle parole di Contessa (1966), ben lungi dall'essere realizzate. A dispetto delle tantissime battaglie fatte per tutelare i lavoratori, l'Italia è come sempre una nazione tragicamente divisa, con categorie rappresentate e altre che nemmeno provano ad alzare la voce. E a dispetto di ciò in cui ancora molti credono, il 2021 non è più il tempo delle grandi manifestazioni. Protestare non significa ottenere. Ci si fa forza l'un l'altro, ma non si va da nessuna parte e i padroni fanno sempre più quello che vogliono.
"[...] Se il vento fischiava ora fischia più forte le idee di rivolta non sono mai morte; se c'è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire [...]", e questa è una verità sacrosanta ma le idee non bastano per cambiare un mondo arrivato al punto dal demonizzare perfino il sacrosanto diritto di andare in ferie. Un mondo dove puoi evadere miliardi senza conseguenze, ma se sgarri pochi euro nella dichiarazione dei redditi, ti ritrovi con migliaia di euro da pagare. 45 anni dopo la nascita di Contessa, noi straccioni stiamo ancora più male di allora. A quel tempo almeno credevamo nel cambiamento, oggi non lo so proprio più...
SULL'ARGANO DELLE NOSTRE MANI VICINE
esproprio intellettuale,
capostipite e rivoluzionario
… c’era la fabbrica
e le miniere… ci sono le armi,
i campi elisi nemmeno menzionati
è più facile parlare di morale
o rispondere senza violenza...
sarebbe più persuasivo
spostare binari
o lasciare le nuvole dove
stanno?
Ma tu lo hai capito
in che direzione
ci sta travolgendo il mondo?
da qualche parte
so che c’è un’amica
che ogni giorno
ha voglia di confidare quei sogni grandiosi
a cui abbiamo appena
sussurrato la buona notte...
... e io almeno so
che da qualche parte del Pianeta
c’è un’amica
che ogni giorno
fa crescere una minuscola
e meravigliosa
porzione di mondo
assoluzione
di risposte… perché dovremmo ancora
lottare... perché non è tutto
già finito... Perché non dovremmo
più credere
alle vostre rassicurazioni
Lasciarsi andare,
e poi riapparire… lo hai fatto tu,
lo abbiamo fatto noi… Nel frastuono
di un fischio sempre più tenue,
il sorriso deciso
risveglia la pace riottosa...
(Venezia, 22-23 Novembre ‘21)
Rock, poesia e bagliori di un impensabile futuro. 25 anni fa i, il 12 novembre 1996 assistetti al mio primo concerto dei Pearl Jam, a Roma, per il tour del nuovo album, No Code.
Il rock autentico dei Pearl Jam, per la prima volta dal vivo! Questo è più di un ricordo. Ciò che sto scrivendo e leggerete, è molto di più di un reportage musicale. Qui c'è l'essenza di ciò che è stata la mia vita (e in parte lo è ancora). In questo articolo c'è l'anima vulnerabile di Luca Ferrari. Quel viaggio iniziò insieme alla mia inseparabile agenda e le parole sputate dentro, on the road. Proseguì sulle rotaie tra cassette e sigarette. Si affacciò nell'attesa di ore e ore fuori dai cancelli. Infine arrivarono loro! Infine arrivò il momento della grande musica on stage. Fresco dei miei fragili e sfiancanti vent'anni appena compiuti, il 12 novembre 1996 andai al Palaeur di Roma a vedere per la prima volta i Pearl Jam dal vivo.
E mo' come comincio? Come si fa scrivere il ricordo di un evento di una tale portata emotiva? Come si fa a tramandarlo senza rischiare di deragliare di brutto? Io ci provo. Ci provo, per me, e per chi avrà la voglia (e la pazienza) di leggerlo fino all'ultima riga. Sarà un viaggio autentico e sfibrante. Conteso da traumi adolescenziali e scritte rabbio-riottose protese verso un insperato futuro, il 12 novembre 1996 andai a Roma per assistere al mio primo concerto dei Pearl Jam. Esattamente venticinque anni fa, all'ora esatta in cui è stato pubblicato questo lungo articolo di memorie umano-musicali, mi trovavo già davanti ai cancelli del Palaeur. Un'attesa lunghissima per vedere una band che da allora non ha più smesso di accompagnare la mia esistenza.
Faccio una doverosa premessa. All'epoca, così come avrei fatto nei successivi anni fino al 2004 circa, avevo sempre con me un'agenda (diary), dove annotavo pensieri, frammenti di poesie, tutto quello che mi frullasse nella mente. Una sorta di social network privato, con la differenza che mai e poi mai lo avrei mai fatto leggere ad alcuna/o, se non in rare e privilegiate occasioni. L'agenda che in quel momento stavo scrivendo, venne ovviamente con me. Impossibile pensare di vivere una simile esperienza senza una base di atterraggio per i miei vorticosi pensieri. Preciso questo perché alcuni dettagli ve li narrerò proprio sulla base dell'inchiostro sgorgato dentro quello scrigno, ancora gelosamente conservato. No Code era il mio album. Per certi versi, più di tutti. Ten e Vs li avevo "digeriti" insieme. Vitalogy fu il primo disco dei Pearl Jam che comprai non appena uscì in una gelida e solitaria serata d'inverno (22 dicembre 1994), nella più autentica e sofferente mutazione umana-emotiva. Vitalogy definì il mio DNA interiore, spalancando le porte di un legame immortale con la band di Seattle, il tutto mentre la poetica tormentata di Kurt Cobain bruciava/brillava/stava esplodendo dentro di me. No Code uscì a fine agosto 1996, in un altro momento cruciale della mia vita. Fu l'album dell'ispirazione "NeilYounghesca". Fu l'album col quale ruppi definitivamente col passato, scegliendo l'ignoto. Fu l'album che mi accompagnò in una lotta furiosa e senza sosta tra demoni interiori e incessanti lacrime come ponte levatoio verso le verità che dovevo trovare e comprendere.
Prima di quel momento, a parte i video, una sola volta avevo visto i Pearl Jam in diretta. Dal vivo, alla cerimonia di premiazione dei Grammy Awards '96, dove si divisero (nella mia anima) con la dolcezza spendente di Mariah Carey. Le notizie all'epoca si leggevano solo sulle riviste musicali, o se si era davvero fortunati, beccando qualche servizio su MTV. Così, quando li vidi sul piccolo schermo, non potevo sapere che di lì a qualche mese me li sarei trovati davanti. Li vidi dal vivo davanti al mio piccolo schermo e rimasi colpito dalla loro atipica autenticità, ma allo stesso tempo mi confermarono tutto quello che avevo letto e immaginato. Un qualcosa che avrei vissuto in modo ancor più ravvicinato e intenso, parecchi anni dopo, quando da giornalista intervistai i Mudhoney.
Arrivò il giorno della partenza. Pur avendo due t-shirt dei Pearl Jam comprate nei mercatini di Bologna e del Lido di Venezia, al concerto decisi che avrei indossato ben altro. Dentro l'arena avrei sfoggiato una maglietta bianca a maniche corte con una foto gigante di Kurt Cobain e la scritta sotto: 1967-1994: The End of Rock. La scelta non fu casuale. Non solo rappresentava il mio fortissimo legame con il cantante dei Nirvana, ma quell'indumento veniva dagli Stati Uniti, comprata da uno dei rarissimi ex compagni di scuola che potevo chiamare amico, e che me la portò dal viaggio post Maturità da New York. Io al contrario non feci nulla. Pur superata la prova finale, non avevo nulla da festeggiare.
Il viaggio in treno in Intercity da Venezia a Roma, 6 ore circa, fu un continuo e incessante ascoltare canzoni, partendo com'era mia abitudine dall'emblematica Train of Consequences dei Megadeth, e via via restando sui binari dell'heavy metal, in particolare, con profonde incursioni nella poetica di New Adventures in Hi-Fi (1996), capolavoro degli R.E.M. uscito appena due mesi prima. E i Pearl Jam? Niente? Quando vado a un concerto ho sempre sentito naturale la necessità di ascoltare poco la band in oggetto, e naturalmente a livelli disumani dopo se il concerto si sia dimostrsto all'altezza. Il live romano dei Pearl Jam fu l'apoteosi di questa dinamica.
Passata la notte da parenti romani, mi presentai ai cancelli prestissimo, quando l'orologio non segnava neanche le otto del mattino, con scorte alimentari ridotte al minimo (beata folle gioventù), trovando subito un gruppetto di persone ai quali unirmi. Molto introverso, lentamente mi feci trascinare dal contesto. Distesi tutti per terra, in particolare strinsi amicizia con un ragazzo di San Marino col quale provammo a giocare/scommettere su cosa i Pearl Jam avrebbero scelto per aprire lo show. Per la cronaca sbagliai di pochissimo. Dissi Last Exit (Vitalogy), che la band eseguirà per seconda. Nell'attesa, riuscii perfino a rivedere mia cugina di secondo grado, giunta sul posto appositamente per salutarmi, e trovandomi, dopo un bel po' che non ci si vedeva, in totale mutazione "capellona".
Le ore passavano e la massa si fece sempre più massiccia. Il sole intanto picchiava duro e la mia testa, dopo ore e ore, iniziò a vacillare. Venni lentamente risucchiato dalla folla, perdendo davvero colpi, e a un certo punto temetti per il peggio. Perse le prime file, riuscii a entrare ma la situazione sembrò davvero compromessa. Il mal di testa era talmente forte che non riuscii neanche a vedere la band di spalla, i Fastbacks, facendo su e giù in bagno a lanciarmi secchiate d'acqua gelida per ammorbidirmi il cranio. Un dettaglio di nota. Una volta entrato, fui invitato (come tutti) a lasciare la mia borsa a tracolla con dentro anche la mia preziosa agenda, in una specie di magazzino aperto.
Finalmente arrivò il momento tanto atteso. Trovai posto nell'ampia platea vicino a un gruppetto di ragazze poco più giovani di me e con cui ogni tanto condivisi qualche emozione sonora. Il concerto iniziò e... e fu uno shock! La prima canzone, Release, non la seppi riconoscere. Avevo atteso quel momento da mesi e adesso non avevo nessuna parola nella testa da poter cantare. Lo ammetto, ci rimasi parecchio male, poi per fortuna arrivò il turno di Last Exit e iniziai a sciogliermi... e a pogare. Il concerto dei Pearl Jam per me iniziò in quel momento.
Ricordo ancora, e bene, la mancanza di fiato dopo questo terzetto di capolavori suonato senza pause dalla band, e la fiammella dell'accendino (viola) tenuta per tutta l'esecuzione di Immortality, il commiato musicale di Eddie Vedder a Kurt Cobain sublimato nella tragica frase finale "Some die just to live". E poi lui, il gran finale di Rockin in a Free Wolrd di Neil Young. Esplosiva. Infinita. Travolgente. Strepitosa. Quasi non ci potevo credere di quello che avevo appena assistito. Dentro di me ripetevo: "Ancora non ci credo di essere qui, a Roma, in mezzo a migliaia fan dei Pearl Jam"... di cui al contrario a Venezia, non avevo nessuno con cui condividere la passione per questa band.
Ora un po' di cronaca da tramandare ai posteri. Attingendo a pearljamonline.it, il sito italiano dedicato ai Peal Jam attivo dal 2001, recupero l'esatta scaletta del concerto: Release, Last Exit, Animal, Hail Hail, Dissident, In My Tree, Corduroy, Better Man, Not for You, Even Flow, Daughter/Androgynous Mind (Sonic Youth)/W.M.A., Jeremy, Hunger Strike (Temple of the Dog), Black/We Belong Together (Rickie Lee Jones), State of Love and Trust, Sometimes, Rearviewmirror, Immortality, Lukin, Alive. Encore: Who You Are, Once, Present Tense, Smile, Rocking in the Free World (Neil Young).
Torniamo al 1996. La band si congeda. Recupero la mia sacca e me ne vado. Quando sono già sulla porta, mi accorgo di un errore atroce. Ho preso quella sbagliata. Torno indietro fulmineo e per fortuna la trovo ancora lì. Non voglio neanche pensare all'idea che l'avessi persa per sempre. Ok, adesso può cominciare la strada del ritorno. E adesso che si fa? Esco gonfio di ogni possibile sentimento ma di mezzi, neanche l'ombra. Dopo almeno un'ora di attesa, arriva un autobus su cui ci fiondiamo in massa, riuscendo ad arrivare alla stazione Termini, all'epoca chiusa. Con i pochi soldi rimasti, recupero un taxi andando fino alla Tiburtina, e lì trovo un treno che mi porterà a Milano, il tutto debitamente annotato sull'agenda (vedi foto).
Il problema adesso sarà stare sveglio per scendere a Bologna. Certo, potevo prendermela comoda e andare a fare la nanna nelle sicure pareti parentali, ma la cosa non mi è mai passata per la mente. Fin da principio avevo deciso che sarei tornato subito dopo la fine del concerto, per viverlo dentro e fuori la pelle e l'anima. È dura. Sonno e stanchezza mi avvolgono, ma grazie al mio inseparabile walkman che ora pompa PJ a getto continuo, riesco nell'impresa. Sono le 4 del mattino quando smonto nel capoluogo emiliano e un'ora più tardi, un Interregionale mi cullerà fino Venezia. Dormire? Non ci penso proprio! È l'ultima parte del viaggio (credo, ndr). Fermata dopo fermata, mentre i pendolari salgono a bordo, nel pieno della mia ribelle adrenalina, vedo il sole sorgere. Mi sento il cuore pieno di poesia e magia.
Ho solo vent'anni. Ho appena visto suonare i Pearl Jam e la consapevolezza di un'esistenza in totale caduta libera. Quello fu il viaggio. Il mio viaggio. Il mio concerto. Da solo in una metropoli. Quello che seguirà (appena) negli immediati due anni successivi, sarà un lungo ed estenuante assolo senza fine, in rotta/scontro verso nuovi significati del dolore nell'anima e nel fisico. Senza saperlo però, un germoglio del futuro più incredibile aveva appena iniziato il suo ciclo vitale. Quella t-shirt nera con il disegno del compact disc di No Code, comprata e indossata appena arrivato fuori dal Palaeur, un giorno chiuderà il cerchio di una delle più sincere e autentiche storie di amicizia. Adesso però, è ora di scrivere l'ultimo paragrafo. Un finale inaspettato e per questo, veracemente grandioso.
Sbarco distrutto alla stazione di Venezia Santa Lucia con la musica dei Pearl Jam che ormai è parte integrante di ogni mia molecola. Sono sudato, sfiancato ma pieno di energia rock. Non ho nessuna intenzione di tornare a casa e chiudermi in stanza. Da una cabina del telefono chiamo una mia carissima amica. Lei sta frequentando l'ultimo anno delle Scuole Superiori e sta per andare a scuola. Le vado incontro per berci un caffè insieme e darle un souvenir del concerto. Insieme a lei, c'è una delle sue migliori amiche che ho conosciuto qualche mese prima e con cui ho subito legato. Insieme a quest'ultima, 18 anni dopo, assisterò a un concerto dei Pearl Jam, a Trieste (2014), con i rispettivi compagni di vita. Prestatale dal sottoscritto, lei indosserà proprio quella maglia nera che comprai al concerto dei Pearl Jam il 12 novembre 1996, a Roma. E come faccio a non essere sentimentale adesso?!?...
IL BATTITO IMMORTALE DEL PRESENTE Non interrompermi,
non ho dormito neanche stanotte…
Mi sono scontrato
con il bagliore delle onde lunari… ... è stata una nuova sensazione
Ho paura che non sarò
più in grado d'imparare altro
per molto tempo...e non sarò
più in grado di tornare
indietro... Puoi scoprire
quanto tempo passerà prima che inizi
a capirlo insieme a te?...
Storia di recenti incursioni,
parole moderne, strade
tardive... Non sono certo
tu sia riuscita a vedere
dove mi sia affacciato... Non
mi sono distratto,
la tua calligrafia è ancora fresca...
Ho sempre guardato il sole
all’indietro perché un giorno pensavo
avrei trovato la mia strada… Poi
decisi di prendere sul serio
le ombre, e il sangue
si fece lacrime gravemente gentili
Prigioni cadute... Si sbriciolano
i fucili... Conchiglie come mulini
in una scia di fuoco
a lume di cammino… Storia di calpestio
di rugiada e sorrisi appena (s)conosciuti...
Consapevolezza e paracadute...
Ogni giuramento senza graffi
è un puzzle di recinzioni in meno
nella mia vita...
Avevo già rinunciato,
volevo rinunciare ancora…
… Nel nome dei sogni che non sapevo
più fare, mi strappai le braccia
per imparare a camminare... ho intinto
lo sguardo affogando
dentro la mia indifendibile innocenza
fino a barcollare
in un cerchio di vertici cognitivi,
equivalenti e interscambiabili... Erano i simboli,
erano nuvole, noi, esseri umani...
Il codice... La visione di un respiro... la mia
strada più gloriosamente senza fine...
…
La marea arrivò fin oltre la mia gola...
Ho trovato la forza
di proseguire... C'è qualcosa
che volevo chiedere
alle nostre mani... Credo a questo finale
perché siamo ancora così vicini
(Venezia, 12 novembre 2021)
I Pearl Jam dal vivo a Roma nel 1996
Un giovanissimo Luca Ferrari (settembre '96) e l'agenda con cui andai a Roma